Pochi sanno che tra fine gennaio e inizio febbraio, il Consiglio Nazionale della Fnomceo (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri), ha “aggiornato” l’articolo 17 del Codice Deontologico Medico che affermava: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Questo per consentire ai medici che decidono di trasformarsi in “sicari” di collaborare alla morte dei loro pazienti come deliberato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019.
La decisione ci ha sorpreso, poiché il Presidente della Fnomceo il dottor Filippo Anelli, solo pochi mesi fa, precisamente il 17 aprile aveva dichiarato al quotidiano La Verità: “La legge non può imporci di andare contro una deontologia che esiste da più di duemila anni, in virtù della quale i medici sono sempre stati custodi della vita”. Ma Anelli andò oltre, ricordando ai fautori dell’eutanasia che è vero che la “società è cambiata”, e i medici non intendono “affrontare il problema sotto il profilo ideologico”, ma neppure è possibile obbligare i medici a “rimanere attori passivi di un passaggio epocale”. Insomma, oltre all’autodeterminazione dell’individuo occorre fare i conti anche con l’altra persona coinvolta nel rapporto di cura: “Accanto alla libertà di un cittadino deve esserci anche quella dell’altro cittadino, che in questo caso è un medico, nel rispetto delle sue convinzioni più profonde. Il primato della libertà non può valere solo a senso unico. E dare la morte a una persona è esattamente il contrario del motivo per il quale il cento per cento dei medici ha scelto questa missione o professione che sia” (G. Gandola, “I dottori salvano vite. All’eutanasia preferiamo Ippocrate”).
Ovviamente, la decisione di collaborare al suicidio assistito, contraddice profondamente quella dichiarazione e per giustificarsi, come si dice popolarmente: ha dovuto “arrampicarsi sui vetri”, affermando: “Abbiamo scelto di allineare anche la punibilità disciplinare a quella penale in modo da lasciare libertà ai colleghi di agire secondo la legge e la loro coscienza”. Si chiede la senatrice e medico psichiatra Paola Binetti: “Ma come può il presidente della Fnomceo credere che si possa contestualmente dire che il medico non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocare la morte e poi dichiarare la non punibilità di chi provoca la morte del paziente?” (L’inversione a U dei medici e la voragine per i malati più deboli, in il Sussidiario.net, 11 febbraio 2020).
Dunque, la porta per una futura “eutanasia di stato” è stata ulteriormente aperta, poiché è ora di togliere la maschera dell’ipocrisia e chiamare le cose con il loro nome, o meglio affermare chiaramente l’uguaglianza tra suicidio assistito ed eutanasia, poiché entrambi gli atti favoriscono la volontà del malato che è intenzionato a morire. L’unica diversità tra i due atti riguarda chi lo compie. L’eutanasia, l’operatore sanitario; il suicidio assistito, il malato a seguito dell’aiuto offerto da medici o infermieri. Ma, a livello etico, la valutazione è equivalente: la collaborazione che si offre a una persona “a morire”, e non come si afferma comunemente nell’ “aiutare a morire”, dato che “aiutare a morire” significa assistere un malato terminale nell’ultimo periodo della vita, alleviandogli il dolore e accompagnandolo verso il destino eterno. Pertanto il suicidio assistito, differisce solo “formalmente” dall’eutanasia, poiché in entrambi i casi la finalità e l’esito dell’atto sono simili.
Questa decisione della Fnomceo comprometterà irreparabilmente “la fiducia” e “l’alleanza terapeutica”, elementi sostanziali del rapporto medico-paziente, introducendo nei malati situazioni di sospetto, di diffidenza e di sfiducia, capovolgendo per la prima volta dall’introduzione del Giuramento di Ippocrate il nobile contenuto di questo rapporto come narrato da un medico olandese. “La mentalità di morte è diventata la norma fra i medici olandesi. Conosco un internista che curava una paziente con cancro ai polmoni. Arriva una crisi respiratoria che rende necessario il ricovero. La paziente si ribella: ‘non voglio I’eutanasia!’, implora. Il medico l’assicura, I’accompagna in clinica, la sorveglia. Dopo sei ore la paziente respira normalmente, le condizioni generali sono migliorate. ll medico va a dormire. Il mattino dopo, non trova più la sua malata: un collega gliel’aveva ‘terminata’ perché mancavano letti liberi”.
Inoltre, com’è possibile accordare l’atteggiamento sicario del medico con il Giuramento che pronuncia all’inizio della sua professione dichiarando che opererà sempre per “il maggior interesse del paziente”, come pure “di perseguire la difesa della vita, la tutela fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza” cui ispirerà “con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni atto professionale” (Versione 2007)?.
L’Associazione Medica Mondiale (World Medical Association – WMA) è sfavorevole alla legittimazione di azioni che aiutino a darsi la morte. E’ quanto fu sottoscritto a Tiblisi (Georgia) nella 70° assemblea annuale dell’Associazione tenutasi dal 23 al 26 ottobre 2018. Nel testo conclusivo non è presente nessuna differenza di valutazione etica tra modalità “attive” o “passive” d’intervento che abbiano la medesima finalità, in altre parole causano la morte anticipata del paziente. Stessa opinione per il suicidio medicalmente assistito. Come mai i componenti del Consiglio Direttivo della Fnomceo non l’hanno presa in considerazione?
Non scordiamolo mai. Nei Paesi che hanno ratificato l’eutanasia, la prima tappa fu il diritto al suicidio assistito per poi giungere, con il trascorrere del tempo, a legiferare sulla “dolce morte”.
Don Gian Maria Comolli