«La cosa che mi impressiona di più è la “trasformazione repentina”». In che senso?
«Nel senso che i pazienti arrivano con difficoltà respiratorie e sembrano “normali” ma un’ ora dopo “precipitano”, li intubiamo e in un attimo somigliano a zombi».
Cioè, così, da un momento all’ altro?
«L’ altro giorno è arrivato un signore di 81 anni, gli abbiamo messo una “maschera” e ossigenava bene, nel giro di 45 minuti è precipitata la situazione, l’ acqua ha invaso gli alveoli e lo abbiamo intubato d’ emergenza, è ancora vivo ma…».
È spaventoso
«No, la cosa più spaventosa è un’ altra, almeno per me. Per farli respirare li “proniamo”, li mettiamo a pancia in giù per tante ore, serve per “reclutare” il polmone, quando li giriamo hanno i volti trasfigurati per la pressione, non sono più loro».
Carla (nome fittizio) parla dei “suoi” malati, ovvio. Quelli positivi al Coronavirus, altrettanto ovvio. Carla è infermiera di terapia intensiva in un ospedale lombardo («puoi scrivere “della Brianza”») e ci racconta cosa significa affrontare un turno di 12 ore ai tempi del Coronavirus.
«Io in realtà sono una perfusionista, in genere assisto le operazioni di cardiochirurgia, ma ho fatto la scuola da infermiera e vista l’ emergenza mi hanno trasferito alla terapia intensiva. È successo a tanti colleghi come me».
Praticamente fate un lavoro nuovo.
«Ci si adatta, siamo tutti professionisti. Qualcuno non se la sente e viene mandato in terapia intensiva “bianca”, quella dove non ci sono i contagiati, in generale facciamo il massimo per imparare le procedure. Il problema semmai è un altro».
La mancanza di posti
«Anche, ma non solo. Come tutti seguiamo le direttive dell’ organizzazione mondiale della sanità, solo che cambiano una settimana dopo l’ altra a seconda di quello che dicono gli studi sul virus e dobbiamo adattarci più in fretta possibile. Si rischia di sbagliare».
Com’ è la situazione, siete al limite?
«Al momento tutti i posti in terapia intensiva sono occupati, ma ce la caviamo. Erano 10, ne abbiamo “costruiti” altri 6. L’ altro giorno è arrivato un paziente da Bergamo in condizioni critiche – ce li manda la Regione – non c’ era ancora una postazione pronta e allora un collega lo ha ventilato artificialmente per tre ore. Alla fine era stremato».
In che condizioni arrivano i pazienti? Saranno spaventati
«La maggior parte devono superare la polmonite e una volta guariti tornano a casa, per questi abbiamo 50 posti, attualmente tutti pieni. Arrivano terrorizzati, uno mi ha detto “che brutta fine che faccio”, aveva 60 anni e per fortuna sta bene. Il problema è che molti arrivano già in condizioni drammatiche».
Età media?
«55/60 anni, molti più maschi che femmine. E giocoforza sono soli, arrivano in pronto soccorso con i loro vestiti in una sacca, i parenti non possono salire sulle ambulanze, né possono venire a trovarli. Al massimo parlano al telefono con i dottori».
Dev’ essere durissima affrontare una roba del genere senza sostegno dei familiari…
«Gli intubati ovviamente sono costantemente addormentati, li sediamo, il problema sono gli altri 50. Se uno di quelli “precipita” e ha bisogno di essere intubato non trova posto. Il timore è di dover arrivare a fare delle scelte tra giovani e meno giovani, da altre parti lo stanno già facendo, e comunque dalla terapia intensiva ne torna uno su due».
Qual è la sua più grande paura?
«Ce ne sono tante. La visione ripetuta della morte, il fatto di non sapere quando finirà tutto questo, la sensazione costante che la situazione possa precipitare. E poi c’ è la paura personale, quella di portare la malattia “a casa”. Il primo giorno alla scuola da infermieri ci dissero “se avete paura di ammalarvi questo non è il vostro posto” e ho fatto la mia scelta, nessuno ci aveva detto “un giorno avrete terrore di contagiare i vostri figli”. In fondo loro non possono scegliere».
Come vi proteggete?
«Abbiamo la tuta chirurgica, tre paia di guanti, lo scafandro che deve coprire tutta la testa per impedire che il virus si attacchi ai capelli, la mascherina, la visiera e i calzari sopra gli zoccoli. Lavorare con tutta questa roba addosso è realmente complicato, ma non si può fare altrimenti. E poi c’è la svestizione, il momento più delicato».
Racconti.
«Il termine del turno di 12 ore andiamo in una stanza e seguiamo la procedura. Ci guardiamo tra colleghi per non sbagliare. Togliamo la tuta “alla rovescia” per non toccare le parti contaminate, buttiamo tutto in un sacco, solo la visiera viene sanificata. Poi cambiamo gli zoccoli, ci laviamo le mani con un gel a base alcolica al 70% e entriamo in un’ altra stanza dove facciamo la doccia, poi ancora gel per le mani, quindi ci vestiamo e lasciamo l’ ospedale.
Di mio, quando arrivo a casa, mi faccio aprire, mi spoglio all’ingresso e faccio un’altra doccia.
Del resto da noi in ospedale il virus è ovunque».
Inutile dire che i ritmi sono vertiginosi.
«Non ci fermiamo mai, chi si ferma – per mangiare o per fare una telefonata a casa – lascia più lavoro agli altri e deve affrontare tutta la procedura. E comunque anche togliersi la mascherina è un problema: se te la levi e mangi, poi non riesci più a rimetterla.
Il viso si gonfia e ti si taglia la faccia».
Vi definiscono “eroi”.
«È solo il nostro lavoro. La cosa più importante è poter continuare a farlo nelle condizioni migliori, per questo servono postazioni e rinforzi, anche perché nessuno può sapere quando finirà questa storia».
19 marzo 2020
https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/21378662/coronavirus_testimonianza_infermiera_uno_su_due_non_esce_terapia_intensiva.html