Il coronavirus ha praticamente azzerato le attività parlamentari e si è proposto il voto a distanza. Ma la proposta è incostituzionale e pericolosa.
Cosa fa il Parlamento in questi giorni? Poco, pochissimo, quasi nulla. Il coronavirus ha praticamente azzerato le attività parlamentari. La prossima settimana si riaprirà soltanto per i procedimenti di conversione dei decreti legge, altrimenti questi ultimi scadrebbero retroattivamente e per di più non potrebbero essere reiterati. Alla Camera si farà il question time – evento peraltro poco frequentato – ma non si procederà alle comunicazioni del Presidente del Consiglio già previste in relazione al Consiglio europeo del 26 e 27 marzo, perché quest’ultimo è stato annullato. Sono state anche annullate le previste elezioni dei componenti di alcune autorità indipendenti da lungo tempo in prorogatio, in quanto si è preferito disporne un’ulteriore proroga con decreto-legge.
Eppure il Governo e i relativi apparati sono funzionanti a pieno regime, così come sono attive le istituzioni regionali e locali, oltre, ovviamente, alle strutture pubbliche che sono impegnate a difesa della collettività, nella sanità, nella protezione civile, nelle forze dell’ordine, nelle forze armate, per non parlare dei tanti cittadini che ancora si recano al lavoro pur tra mille difficoltà e preoccupazioni.
Nella bolla di sospensione in cui il Paese tutto è drammaticamente immerso, il Parlamento appare bloccato più di qualunque altra istituzione. Salvo qualche meritevole eccezione, gli stessi parlamentari sembrano considerarsi come un “servizio pubblico essenziale”. Si sentono obbligati al minimo indispensabile, come se la loro funzione potesse ridursi a qualche sporadica presenza, per di più centellinata come una medicina amara da ingoiare. La stessa soluzione – il dimezzamento, concordato tra maggioranza e opposizioni, dei parlamentari presenti – che è stata adottata per il voto sulla richiesta di scostamento del bilancio, è apparsa una manifestazione di resa, piuttosto che l’avvio di un percorso di consapevole riappropriazione del proprio ruolo.
Tuttavia, senza un Parlamento realmente funzionante, capace cioè di interloquire davvero con il Governo e non soltanto chiamato a pronunciarsi a mo’ di ratifica delle decisioni assunte dall’esecutivo, mancano un aspetto essenziale della nostra forma di governo e una fondamentale garanzia della nostra democrazia. Mancanze tanto più gravi, come l’esperienza insegna, allorché il potere si concentra, stavolta per ragioni emergenziali, nel Governo o addirittura nel solo vertice di quest’ultimo. E può aggiungersi che, certo, i decreti legge sono spesso mal scritti e, in genere, sono ancor più difficilmente comprensibili dopo gli emendamenti apportati dal Parlamento in sede di conversione.
Ma la deprimente esperienza della decretazione d’urgenza è nulla al confronto del deprecabile caos che è stato determinato dal susseguirsi dei Dpcm, poi “ufficiosamente” interpretati dalle Faq ripetutamente aggiornate sui siti ministeriali. Di fronte all’impossibilità di conoscere preventivamente, con una qualche determinatezza, quale siano i comportamenti penalmente sanzionabili, possiamo dire che siamo ancora in uno Stato di diritto? Se vogliamo recuperarne il minimo essenziale, dobbiamo riattivare il Parlamento.
Per reagire a questa stasi – pericolosa per tutti noi – si è proposto il voto a distanza o comunque l’introduzione di innovative modalità di organizzazione dei lavori parlamentari. Il ricorso alle tecnologie telematiche potrebbe consentire la partecipazione e la deliberazione a distanza. Un escamotage, per di più, che l’ultimo decreto legge consente negli enti locali.
Le intenzioni che muovono questa proposta sono condivisibili, perché lo scopo sarebbe quello di rivitalizzare il Parlamento. Ma se il suggerimento del voto a distanza fosse generalizzato, così determinando la sostituzione del parlamento virtuale al Parlamento reale, l’esito, a nostro avviso, sarebbe l’esatto opposto. E non perché, come taluno ha sostenuto, ciò comporterebbe la “chiusura” del Parlamento, ma perché ne sanzionerebbe la sostanziale – e forse definitiva – annichilazione.
Infatti, è evidente che le tecnologie possono consentire il voto a distanza o permettere lo svolgimento di riunioni in streaming, ma non possono mai sostituire il Parlamento quale “luogo” essenziale e irrinunciabile per la democrazia. In altri termini, soltanto gli ingenui possono concepire il Parlamento come un’istituzione fatta da procedure e meccanismi più o meno complicati. Il Parlamento è davvero tale in quanto è quel particolarissimo luogo dove ai parlamentari è pienamente garantita la libertà di incontrarsi, di scambiarsi opinioni, di confrontare posizioni, di elaborare proposte, di preparare le future mosse politiche. Un’assemblea meramente virtuale, condotta con procedure telematiche, ne è l’esatto contrario. Perché l’attività dei parlamentari sarebbe incostituzionalmente irregimentata nell’esclusiva partecipazione a procedimenti decisionali etero-guidati, robotizzati e spersonalizzati.
Non solo: cancellando il Parlamento reale, si comprimerebbe lo spazio di libera formazione della volontà politica dei parlamentari, e si aprirebbe una strada subdolamente utilizzabile per denervare definitivamente il Parlamento e la stessa democrazia rappresentativa fondata sul mandato elettorale.
Infine, è evidente che i parlamentari isolati nella propria abitazione e chiamati soltanto a premere qualche pulsante dei loro computer, non possono certo essere considerati e dunque davvero agire come “rappresentanti della Nazione”, come richiesto dall’articolo 67 della Costituzione.
Dunque, ben vengano le tecnologie, ma non per sostituire il Parlamento, ma soltanto per agevolare quei parlamentari che attualmente, per ragioni oggettive connesse al coronavirus in seguito all’applicazione di disposizioni che impongono il loro isolamento (confinamento o bio-isolamento, come dir si voglia) territoriale, domiciliare o ospedaliero, non possono spostarsi e recarsi in Parlamento. Con un’interpretazione meramente adeguatrice delle disposizioni costituzionali e regolamentari relative ai parlamentari “presenti”, i Presidenti e le competenti Giunte delle due Camere possono rapidamente consentire a questi parlamentari di utilizzare metodi telematici sicuri (anche gli stessi ormai consentiti per le istituzioni locali) per partecipare alle sedute, per esprimersi e per votare. Così si potrà anche evitare, senza la necessità di accordi più o meno bipartisan di dubbia costituzionalità, che le limitazioni agli spostamenti che sono imposte dalle vigenti disposizioni emergenziali in connessione alla crisi sanitaria alterino il rapporto numerico sussistente tra le forze parlamentari, ponendosi, anche da questo punto di vista, in palese contrasto con la Costituzione.
Tutti gli altri parlamentari – al pari dei funzionari che con essi collaborano – che non hanno vincoli giuridici di spostamento, hanno il dovere, rispettando le reciproche misure di sicurezza, di esercitare le loro funzioni “in” Parlamento. E spetta ai vertici delle Camere adottare ed escogitare, anche destinando risorse apposite, gli strumenti e le garanzie per consentire il ripristino del pieno svolgimento di tutte le attività parlamentari.
Se così non fosse, la Costituzione consente a un terzo dei componenti delle Camere di chiederne la convocazione in via straordinaria per imporre il dibattito dell’intera Assemblea su una questione così cruciale per la nostra democrazia. Nessuno, certo, auspica che si giunga a così tanto. Possono senz’altro trovarsi soluzioni interpretative, modalità opportune e spazi idonei per riavviare il Parlamento e restituire ai parlamentari l’integralità delle loro funzioni. La sospensione del Parlamento non può diventare la regola. Questa regola, sì, non consentirebbe più eccezioni.
20 marzo 2020
https://www.ilsussidiario.net/news/il-caso-perche-governo-regioni-forze-dellordine-lavorano-e-il-parlamento-no/1998983/