“Mi affido al Signore ma ho paura”: è l’ultimo messaggio di don Paolo Camminati inviato alla sorella Elena, poco prima di morire accompagnato nell’ultimo passaggio dalle Ave Marie, pronunciate insieme ad un giovane infermiere che lo ha assistito fino alla fine. Una vita all’insegna dei poveri di fede, dei ragazzi, dei precari. Una testimonianza di amore per la vita e per Cristo.
Don Paolo Camminati era un sacerdote molto noto a Piacenza. Dal 2002 assistente dell’Azione Cattolica diocesana, era stato responsabile della Pastorale giovanile. Parroco a Nostra Signora di Lourdes, ha portato avanti un apostolato discreto e fruttuoso in ogni generazione. La sorella Elena ripercorre la sua malattia da coronavirus che lo ha stroncato nel primo giorno di primavera.
Intervista a Elena Camminati
R: – Stava bene, un ragazzone grande e grosso, sempre pieno di vita e di salute. Nei giorni coincidenti la prima manifestazione di Covid-19 a Codogno, a pochi chilometri da Piacenza, ha cominciato ad avere la febbre. Sembrava una comune influenza, ma con il passare dei giorni la febbre era sempre alta. Si è arrivati al ricovero in ospedale, prima in isolamento e poi in terapia intensiva dal 1° marzo, da lì non è uscito.
Come avete vissuto questo tempo?
R: – All’inizio nell’incredulità. Non ci sembrava possibile che fosse così. All’inizio abbiamo potuto comunicare attraverso messaggi, credevamo molto che potesse cavarsela, i medici ci dicevano che avrebbe potuto farcela, invece il virus lentamente si è portato via i polmoni. E’ morto che aveva tutte le funzionalità buone ma l’ossigenazione a un certo punto è venuta meno e il cuore ha ceduto.
Chi era don Paolo per voi e per la comunità?
R: – Noi eravamo, con lui, tre fratelli. Lui era il più forte dei tre. Siamo una famiglia molto unita, lui era una colonna, l’elemento speciale. Ci stiamo rendendo conto che, oltre ad essere per noi un riferimento importante, lo è stato per tantissime persone, in una forma molto discreta, peraltro. Per tanti ragazzi, anche per i poveri di tante categorie: i poveri di fede, i poveri perché fragili, ma anche per tanti anziani. Per gli anziani della sua comunità aveva una cura particolare, cercava di essere sempre presente negli ultimi momenti della loro vita. Invece questa cosa a lui è mancata, perché sappiamo che chi si ammala di coronavirus muore in rianimazione e non ha vicino nessuno. Ma una cosa devo dirla perché mi ha consolato tantissimo: tramite amicizie comuni, il giovanissimo infermiere che quella sera del 21 marzo era con lui – giovanissimo mi sembrava dalla voce, al telefono – ci ha fatto sapere qualche giorno dopo che non conosceva don Paolo ma che aveva saputo di questa autorizzazione del Papa al personale sanitario di poter accompagnare chi se ne stava andando. Ecco, lui mi ha detto che lo ha fatto, che si è avvicinato a Paolo, ha detto tre Ave Maria e si è scusato perché non ha potuto dire il Rosario tutto intero ma che non hanno proprio il tempo di farlo. Questa cosa per me è un segno molto bello. Questo ragazzo, nella sua semplicità, ha fatto un gesto importante.
Un’ultima carezza, un balsamo… Lei citava i poveri. Don Paolo stava avviando un progetto per i lavoratori precari nella zona. Ce ne vuole parlare?
R: – Lui aveva maturato, insieme alla sua comunità – ripeteva infatti sempre l’importanza delle scelte condivise – l’idea di dedicare uno spazio piuttosto ampio della sua canonica per costruire una casa tra le case per i lavoratori precari. Ne abbiamo tanti qui perché c’è un polo logistico importante che attira molti lavoratori da ogni parte d’Italia e soprattutto dal Sud. Per le condizioni in cui vivono non possono permettersi una casa. Sono in difficoltà, fanno turni di notte e poi non sanno dove andare… E allora pensiamo che questo progetto possa essere portato avanti, in qualche modo.
Come leggere attraverso gli occhi della fede questo calvario?
R: – E’ una esperienza molto dura, però io mi ricordo – e ce lo siamo ripetuti anche con i miei figli in questi giorni – che lui molto spesso diceva che l’esperienza di fede non toglie niente all’esperienza del dolore ma, anzi, lo sublima col tempo. Anche per Gesù è stato così: quando è passato attraverso l’esperienza della croce non è stata una magia, non aveva la soluzione in tasca ma si è affidato. Uno degli ultimi messaggi whatsapp che mi ha mandato mio fratello è stato: ‘io mi fido ma ho paura’. Ecco. Lui si è affidato. Lo sappiamo perché il medico poi ci ha detto che aveva il volto sereno. Lo immaginiamo così, affidato alle braccia di Dio, vicino, che intercede per noi.
Antonella Palermo
27 marzo 2020
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