Noi temiamo la solitudine e la evitiamo. E cerchiamo di evitare il sentimento della noia ai figli o a chi viene educato. Perché genitori e educatori cercano così accanitamente di evitare la noia ai bambini? Perché si cerca sempre di riempire il loro tempo di attività e la loro camera di oggetti e giocattoli?
Forse per senso di colpa quando ci sembra che non siamo sufficientemente presenti con loro? Per paura che vivrebbero male la solitudine? Che si annoierebbero se non hanno nulla da fare? Di fatto noi riempiamo i nostri figli di regali e di cibo, credendo di aiutarli, ma cosi impediamo loro di sentire la mancanza e il vuoto connessi alla noia. Mancanza e vuoto che costituiscono lo spazio del possibile sorgere della creatività. E tuttavia i bambini arriveranno comunque a conoscere il dolore della mancanza. Sarebbe meglio lasciare loro la possibilità di essere soli e in silenzio, insegnare loro a gustare e a gestire la solitudine così che, il giorno in cui mancanza e incompiutezza si faranno sentire ed essi patiranno il dolore della perdita, scoprirebbero di avere già in sé una forza interiore per farvi fronte.
La solitudine la associamo alla noia. La noia e la solitudine le combattiamo avendo sempre qualcosa da fare. In verità noi non sappiamo coltivare e nutrire i nostri vuoti, ma tendiamo immediatamente a colmarli con immagini interiori, con pensieri, con dialoghi immaginari. Ma così ci priviamo di poter ascoltare la nostra angoscia: da dove nasce? La noia che ci assale: da cosa è motivata? La nostra malinconia: di che cosa è segno? Ci priviamo della possibilità di ascoltare le nostre emozioni. Il vuoto che c’è in noi è anche alveo di un’attesa nascente, di un desiderio che si sta facendo strada. Ha qualcosa da dirci. Occorre ascoltarlo. La solitudine ci pone di fronte a una dimensione interiore forse problematica ma senza rimuoverla, senza anestetizzarla, senza fuggirla. La noia è un senso di disgusto, di tedio di vivere, dovuto alla reale o presunta assenza di stimoli interessanti, alla ripetizione monotona degli stessi eventi, all’assenza di motivazioni interiori, al non gusto nei rapporti. È una forma di rimprovero, la noia, rivolta agli oggetti, per essere troppo spenti, smorti, sempre uguali; e rivolta agli altri esseri umani, per essere scialbi, non interessanti, banali, superficiali. Tuttavia, queste connotazioni negative della noia, non sono le uniche. Potremmo dire che la noia è il momento negativo delle grandi domande: perché vivere? Perché agire? Chi sono? Che senso ha il mio esserci? …
La pratica dell’otium si oppone tanto alla perdita di tempo quanto alla fretta. Se l’accidioso è colui che non vuole essere se stesso, non aderisce a se stesso, l’otium nasce dall’adesione dell’uomo a se stesso e si nutre di questo sentimento di integrità, di adesione al reale e di amicizia con il tempo. “L’otium è una configurazione di quel silenzioso raccoglimento che è un presupposto necessario alla percezione della realtà” (J. Pieper).
Nell’otium, quel tempo che ci sfugge costantemente, che ci è rubato (da chi?), che non abbiamo (ma si può mai “avere” il tempo?), ci è improvvisamente restituito nella sua dimensione di dimora, di casa in cui abitiamo. Abbiamo bisogno di un’ecologia del tempo, non solo dello spazio. O, per dirla con Paul Celan: “È tempo che sia tempo”. A una concezione e soprattutto una pratica disumanizzante del tempo come produttivo perché votato al profitto, all’esperienza della frammentazione del tempo in tempi successivi e incalzanti, all’imperativo della velocità, allo slogan dell’ottimizzazione dei tempi, l’otium risponde abitando il tempo. E ben sapendo che abitare il tempo significa anche abitare il corpo, che è il libro del tempo, e significa abitare con e stessi, facendo della pace con se stessi la base della costruzione della comunità. Nell’otium l’esperienza del tempo è qualitativa più che quantitativa. L’otium integra nell’esperienza temporale anche l’attesa, la pazienza, il non intervento, la capacita di assecondare i movimenti e i tempi di maturazione e crescita degli eventi e degli altri. Nell’otium il tempo non è solo finalizzato al lavoro e alla produttività, ma diviene elemento che lavora esso stesso l’uomo e lo trasforma.
Fonte: Monastero di Bose