Suor Cecilia Maracci per anni è stata in prima linea a salvare vite durante gli scontri tra guerriglieri in Ciad: “Ora che lavoro in una casa di riposo mi assale lo stesso senso d’impotenza che avevo in Africa: non poter curare i malati come vorrei”. Ma la speranza non è morta: “Negli occhi dei miei malati leggo la certezza che Dio non li abbandonerà mai”.
Molto spesso ha l’impressione di essere ancora in Ciad, a curare i corpi martoriati dalla violenza cieca della guerriglia: “Per anni sono stata impegnata a salvare molte vite in situazioni d’emergenza estrema, quasi senza alcuna attrezzatura, senza l’aiuto di nessuno perché il collega più vicino era a centinaia di chilometri di distanza”. Ma ora che lo scenario si è trasformato nella casa di cura ‘Santa Lucia’ di Rieti e le sue ‘emergenze’ sono diventate decine di anziani colpiti dalla pandemia, suor Cecilia Maracci, medico missionario delle Suore francescane alcantarine, sente rinnovare dentro di sé quel senso d’impotenza che le stringeva il cuore quando operava tra le bombe a mano e le raffiche di mitra nel Paese africano.
Intervista a suor Cecilia Maracci
Senso d’impotenza, perché?
R.- Questa casa di riposo, prima gestita da una congregazione religiosa ed ora presa in carico dalla Asl di Rieti, ospita una sessantina di anziani, tra i quali venti suore. Molti sono stati colpiti dal virus e vengono assistiti non solo dai medici della Asl ma anche da dottori volontari, come me ed altre tre suore. Abbiamo fatto di tutto per far assomigliare la struttura ad un reparto di medicina di un ospedale, dietro c’è stato un grande lavoro. Eppure la situazione nella quale ci troviamo ci mette di fronte al fatto che non bastano i mezzi, non basta il personale. Spesso non sai dove trovare una presa di corrente per far funzionare la macchina per l’elettrocardiogramma o devi attaccare la flebo ad un attaccapanni. Eccolo il senso d’impotenza: sapere che ci sarebbero possibilità di cura migliori ma che in questo momento non si possono mettere in campo.
Vi sentite inadeguati?
R.- E’ l’accettazione del limite. Forse la nostra società è caduta nel delirio d’onnipotenza, presumiamo troppo delle nostre possibilità. Il virus ci ha messo difronte alla nostra debolezza, alla nostra impotenza. Ma nel momento in cui si è tutti più poveri, la solidarietà si risveglia. Nella nostra casa di riposo ci si aiuta reciprocamente, non importa se si è medici o infermieri: tutti fanno tutto, anche le pulizie. E poi nessuno ha l’orologio in mano. Vedendo i molti anziani in difficoltà, tutti stanno dando il massimo. Alcuni si sono fatti quarantott’ore di servizio continuato senza lamentarsi mai.
Ai vostri pazienti dedicate anche un’attenzione umana…
R.- Gli anziani non sanno spiegarsi perché i figli non vengono più a trovarli, le suore malate non possono scendere nei piani dove ci sono gli altri ospiti e tutto ciò ha generato uno spaesamento generale. Allora è importante fermarsi con loro per parlare, per tentare di fargli comprendere gli avvenimenti. Lo facciamo anche con il personale, stanco e alle volte affranto. Con i miei occhi ho visto dei ragazzi grandi e grossi, che lavorano a ritmo serrato, piangere a dirotto sperimentando sulla propria pelle il fatto che non si riesce a garantire un’assistenza degna degli standard che si desidererebbero.
Poi c’è la dimensione della fede?
R.- Dismessa la veste da medico torno ad indossare quella di suora. Per Pasqua, distribuire la comunione è stata una gioia immensa. Gli anziani avevano degli sguardi stupiti, erano grati. In molti hanno potuto seguire la messa del Papa in Tv. I loro occhi si sono accesi di gioia e ci hanno detto: “Ma allora è possibile!”. I miei anziani sono sicuri che Dio è lì con loro, che non li abbandonerà mai.
Federico Piana
17 aprile 2020
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