Ampia intervista a Giordano Faccincani, presidente dell’Osservatorio Van Thuân. |
In questa intervista a tutto campo, Giordano Faccincani, titolare di un importante studio di consulenza del lavoro operante a Verona e Presidente dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, ove è stato chiamato a sostituire l’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, esamina tutti i principali aspetti della crisi in atto, valuta con perizia anche tecnica gli interventi del governo italiano, e considera il ruolo dei cattolici e della Chiesa.
Data l’attività svolta dal suo studio lei ha il polso della situazione di tante aziende italiane. Come stanno reagendo alla chiusura imposta dal governo? Le valutazioni che posso fare partendo dalla mia esperienza diretta, sono ovviamente limitate allo scenario prevalentemente veneto. Posso assicurare che quello che sta succedendo non è normale; è straordinario grazie alla nostra gente che non si ferma mai. Questo è un Veneto fantastico che non avevo mai visto o di cui non mi ero reso conto. Soprattutto le piccole “!imprese stanno facendo miracoli, non solo ricorrendo a tutti i possibili ammortizzatori sociali; molti imprenditori integrano a proprie spese e senza esserne obbligati, quanto corrisposto a titolo di cassa integrazione in modo da far percepire ai propri dipendenti il solito stipendio netto senza riduzione alcuna. Vogliono di fatto mantenere inalterata ed integra la capacità aziendale. Il proprio potenziale produttivo pronti a cogliere i primi segnali di ripresa. Ma credo che la reazione positiva e funzionale ad una piena ripresa dell’attività che si sta verificando nel nostro territorio. Si stia attuando in maniera generalizzata anche in altre regioni. Una conferma in tal senso viene da quando sta succedendo a Milano. Un amico ingegnere che sta partecipando alla costruzione del reparto di terapia intensiva in fiera mi dice che quello che sta succedendo ha del miracoloso. Alla sera decidi una modifica e la mattina è già tutto fatto. In un giorno vengono preparati locali dal nulla con pareti piombate, climatizzati, gas medicinali e dotazioni di norma (TAC, RX, ecc..). lavoratori incredibili. Molti volontari (veri, non quelli delle ONG) che non si fermano mai. Non si costruisce un ospedale da 250 posti di terapia intensiva in 15/20 giorni, quando mediamente ci vogliono tre anni solo per le autorizzazioni. La crisi economica li può fermare? No di certo. Questa è l’Italia fantastica che tutti vogliono, alleggerita dalle pastoie burocratiche imposte da chi si sente importante solo se mette dei divieti. Con poco Stato spesso si fa prima e meglio. Sono certamente segnali che indicano in maniera forte che lavoratori e imprenditori hanno la voglia e la capacità di reagire alla chiusura imposta dal Governo in maniera positiva e funzionale ad una piena ripresa di tutte le attività economiche; il che fa ben sperare anche se la ripresa potrà essere lenta e progressiva. L’importante è lasciarli lavorare e intraprendere. Il quadro degli aiuti governativi alle imprese dal punto di vista della tutela dei lavoratori è efficace convincente? Questo è un punto dolente. Il quadro degli interventi legislativi del Governo a favore dei lavoratori dipendenti a mio parere appare inadeguato a gestire la situazione di emergenza in atto. Un sistema burocratico basato sull’utilizzo di ben quattro ammortizzatori sociali ( CIGO CIGS CIGD FIS ) con regole, procedure e tempistiche differenti, pensato per “vecchie crisi” e non adatto alla realtà di oggi cioè a “crisi nuove”. Gli adempimenti a carico delle aziende per poter garantire ai propri dipendenti l’accesso alle varie tipologie di cassa integrazione sono complessi, di difficile attuazione anche per il cattivo funzionamento dei sistemi informatici dei vari Enti coinvolti nella gestione degli ammortizzatori sociali. Si è cercato di porre rimedio con deroghe di ogni tipo. È stato un susseguirsi frenetico di norme, circolari, messaggi, direttive, proroghe parziali, rettifiche in una giungla di incertezza. In questa situazione di criticità comunque quasi tutti i lavoratori sospesi dal lavoro hanno potuto accedere ad uno dei citati ammortizzatori sociali con la garanzia di poter ricevere parte dello stipendio sia pure per un periodo limitato nel tempo. Quasi tutti gli imprenditori hanno preferito anticipare gli importi anziché farli erogare direttamente dall’INPS o dall’Ente di competenza: questo dà la misura della fiducia che la “cosa pubblica” trasmette. Dal punto di vista invece degli aiuti finanziari alle imprese in questa fase di difficoltà come giudica l’operato del governo? Secondo lei qual è la fascia di imprese italiane che rischia di più? Gli aiuti finanziari alle imprese previsti ad oggi dal Governo con il decreto Liquidità sono davvero pochi. I 25 miliardi virtualmente stanziati rispetto agli 850 degli Stati Uniti, ai 550 della Germania, ai 300 della Francia, agli 80 della Svizzera (almeno questi sono i dati che si leggono sui giornali economici) sono veramente poca cosa. Speriamo e auspichiamo che sia un primo passo; trattasi solo di prestiti (non finanziamenti a fondo perduto) erogati alle aziende dal sistema bancario cui lo Stato deve fornire la propria garanzia. Il sistema delle garanzie sembra però essere troppo articolato e complesso., dipende dalle dimensioni aziendali, dal fatturato, dal costo del personale, dalla credibilità bancaria dell’azienda, ecc. è previsto fra l’altro il divieto di distribuire utili. Troppi vincoli e parametri da rispettare. Le imprese solide non hanno problemi a reperire finanziamenti anche in via ordinaria. La liquidità va erogata ed in maniera diretta alle aziende in difficoltà che non possono fornire garanzie adeguate e senza vincolo di istruttoria bancaria. Non si può risolvere una emergenza nuova con schemi vecchi; così si rischia la paralisi. Erogare i fondi subito o almeno un congruo anticipo in attesa della chiusura dell’istruttoria bancaria. Altri strumenti da utilizzare avrebbero potuto essere per esempio la possibilità di sconto totale delle fatture, il finanziamento obbligato con vincolo di mandato per pagare stipendi e fornitori, si darebbe così liquidità immediata all’intero sistema. Per le piccole imprese invece è previsto l’intervento del Fondo di Garanzia dello Sviluppo Economico che però garantisce il 100% del finanziamento solo in certe situazioni ed ha un costo minimo del 1,2%. Ed è un limite notevole. Si arriva alla garanzia totale diretta, gratuita solo per i finanziamenti sino a 25.000 euro. Tale prodotto/possibilità sarà sicuramente quello più gettonato da artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e lavoratori autonomi. Cioè dalle categorie più in difficoltà e a rischio di chiusura. Ma per questi soggetti non serve a nulla accedere al prestito bancario se poi questo deve servire per pagare le tasse. Occorre azzerarle per il 2020 e quelle del 2019 spalmarle in tre quattro anni. Nel settore micro/terziario (commercio turismo servizi) e per i lavoratori autonomi, se non si interviene con aiuti concreti e non solo con prestiti garantiti, si stima che il 30% debba chiudere. Vogliamo frenare la loro intraprendenza e spingerli verso il reddito di cittadinanza? Lei si è fatto un’idea di cosa sia questa “cassa integrazione europea” di cui si è letto? L’Unione europea ha sospeso il patto di stabilità e concede ora agli Stati di aumentare il debito: ma chi pagherà poi questo debito? Se gli stessi Stati interessati allora vuol dire che non c’è solidarietà in Europa. Come vede la questione? L’Europa della solidarietà, intesa come aiuto diretto a fondo perduto da parte degli Stati più “ricchi” (nord Europa) a chi si trova in grave difficoltà, non esiste. Il Governo Italiano si sta muovendo nei confronti di Bruxelles per ottenere il cosiddetto “Recovery Fund” per la ricostruzione dopo la fine della emergenza sanitaria. La richiesta di emissione di Eurobond non è stata nemmeno presa in considerazione. Il SURE con il programma di disoccupazione europea dovrebbe mettere a disposizione 100 miliardi con possibilità per l’Italia di usufruire solo della quota di spettanza e cioè di soli 15 miliardi; importo del tutto insufficiente, anche se meglio di niente. La BEI avrà a disposizione un plafond di 200 miliardi per garantire le banche e consentire loro l’erogazione di liquidità alle attività produttive con il meccanismo del cofinanziamento. La ricaduta sulle ns. imprese in base alla quota di spettanza non supera il 20 miliardi. Come si può facilmente constatare, trattasi di interventi di portata limitata, comunque di attuazione non immediata e con procedure complesse. È auspicabile che si possa e si debba ottenere di più. Cosa dovrebbe fare lo Stato italiano per finanziare gli aiuti in questa crisi non potendo agire sulla leva monetaria? La liquidità al momento è il problema principale e risolverlo significherebbe fermare una crisi di una gravità che non ha precedenti nel nostro Paese. Non si può certo risolverla con 600 euro ai lavoratori autonomi e concedendo una proroga di qualche mese per il versamento dei contributi e delle imposte alle aziende che hanno avuto un calo di fatturato rispetto al passato. Cosa c’entra il fatturato? ai fini della liquidità occorre prendere in considerazione non la fattura ma l’incasso. Questo è un dettaglio forse di poca importanza ma che denota una incapacità di lettura dei problemi da parte del governo. Servono misure più incisive e immediate possibilmente evitando richieste ed iter burocratici connessi. L’Agenzia delle entrate dispone di tutti i dati possibili ed immaginabili: dal reddito, agli incassi mensili, al fatturato e, se si collega alle banche, persino della disponibilità finanziaria aziendale. Potrebbe verificare l’esistenza dei parametri stabiliti e poi, direttamente tramite dell’INPS, accreditare sul conto corrente aziendale l’aiuto finanziario spettante. Non ci vuole molto. Il fatto è che se non si mettessero in atto meccanismi complessi la burocrazia finirebbe per non contare più. È il problema principe del nostro Paese. Oltre alla erogazione di aiuti sotto le varie forme analizzate, servono sicuramente investimenti diretti dello Stato e delle Regioni soprattutto in infrastrutture di cui siamo carenti e nelle scuole. Ma per farlo lo Stato deve aumentare il debito pubblico che è già a livelli critici anche se sostenibili; e i debiti prima o poi vanno pagati: di solito lo si fa ricorrendo a una patrimoniale o aumentando la pressione fiscale. Entrambe le misure sarebbero deleterie e produrrebbero effetti depressivi sull’economia. Quindi da evitare assolutamente. Cosa fare allora? È risaputo che l’Italia è uno dei Paesi che può vantare una grande ricchezza privata. Probabilmente in termini comparati siamo al primo posto come risparmiatori. Lo Stato sino ad oggi ha pensato solo a tassare il risparmio; occorre invertire la rotta e creare le condizioni affinché almeno parte della grande quantità di ricchezza accumulata nel privato venga immessa nell’economia reale. Per esempio quella amministrata da Casse Previdenziali, Fondi, ecc. … Opportuni incentivi fiscali potrebbero indurre questi Enti a privilegiare investimenti a lungo termine in aziende italiane quotate e non. Inoltre il Governo potrebbe varare provvedimenti (anche con efficacia limitata nel tempo per non alterare l’equilibrio del mercato dei capitali) che prevedano se necessario anche l’acquisto di pacchetti azionari da parte di società a controllo pubblico (Cassa depositi e prestiti o altro) per tutelare gli assetti azionari e l’occupazione, e per mantenere in Italia i centri decisionali a difesa delle aziende a valenza strategica per la nostra economia e per il Made. I cattolici in passato avevano inventato forme di solidarietà, anche mediante il credito, nel piccolo ambito della società civile e all’ombra dei campanili: sarebbe utile tornare a queste formule dopo l’ubriacatura da globalizzazione? Dar vita nel piccolo ed in riferimento al territorio ad istituzioni cattoliche, nell’attuale situazione socio politica mi sembra quanto meno velleitario se non impossibile. In primis non esiste più nel tessuto sociale una marcata identificazione cattolica “collettiva”. L’associazionismo è sfilacciato e le iniziative personali nel campo della solidarietà finanziaria sono improbabili. Sarebbe rimasta la parrocchia che però non ha né motivazioni sufficienti né capacità per stimolare la creazione da parte dei vari gruppi di fedeli di strumenti di intervento economico finanziario innovativi. Ma anche se fosse, lo Stato non lo permetterebbe mai. Sarebbe capace di far diventare enti economici anche le parrocchie e tassare … anche le elemosine. Ovviamente esagero, ma l’evoluzione legislativa in atto tende a regolamentare tutto. Basti pensare al mondo no-profit. Persino le scuole cattoliche sono considerate Enti Economici. In definitiva non vedo possibilità concrete nell’immediato. Prima è indispensabile che noi cattolici riprendiamo ad agire nella società in modo ben identificato, sottolineando la nostra appartenenza. Lo stesso vale anche per tutte le associazioni a partire da quelle piccole. Cosi forse creeremo le basi per “altro”. Il nostro Osservatorio lamenta che in questo frangente la Chiesa non dica nulla di ispirato alla sua Dottrina sociale. È d’accordo? e se sì come spiega questa omissione? Che la Chiesa non dica nulla in questo frangente non mi sorprende. Da tempo si sta appiattendo sulla società civile e sta inseguendo il mondo quasi abdicando al ruolo guida che dovrebbe esserle proprio. Non solo non esiste più la convinzione dell’origine divina dell’autorità, come sottolineato anche dal prof. Fontana nella ultima conferenza a Firenze, ma il “comune sentire” esprime esattamente l’opposto. Ormai la presenza cattolica nell’ambito pubblico è emarginata: lo Stato tende a considerarla alla stregua di qualsiasi altro ente cui è permesso di svolgere le proprie attività ma in un quadro ben delimitato e con risvolti possibilmente solo individuali. La sospensione delle Sante Messe, a mio modesto parere, conferma che questa tendenza è in atto, e sta ad indicare una certa sottomissione della Chiesa allo Stato. Al momento forse nulla di male, ma a tendere è pericoloso. Mi sarebbe piaciuto vedere la CEI attiva; avrebbe potuto per esempio anticipare l’ordinanza amministrativa governativa di sospensione delle Sante Messe con dei provvedimenti interni alla Chiesa (ma di rilevanza pubblica) per garantirne la celebrazione in piena sicurezza. Per esempio bastava diluire la presenza a lettere alfabetiche, permettendo l’accesso ad un numero massimo di persone disponendone due-tre per banco. Molte nostre chiese sono molto ampie. La parrocchia avrebbe potuto garantire anche la “sanificazione periodica dell’ambiente”. Esempio magnifico di una Chiesa impegnata. Ma forse pretendo troppo. Nei tempi passati si facevano le processioni per chiedere l’intervento divino e scongiurare le epidemie, adesso non si va nemmeno in Chiesa. Noi però continuiamo a pregare e confidiamo nella Provvidenza. (Intervista a cura di Stefano Fontana) |
Newsletter n.1085 | 2020-04-19