All’inizio lo stupore nel vederci arrivare era grande, infermieri, medici e Oss continuavano a chiederci: «Ma chi siete?»
Gentile direttore, lavoro in una azienda di produzione di macchine e impianti industriali e mi occupo di seguire la Produzione e la Sicurezza; per questo motivo la mia quarantena non è stata di reclusione, avendo continuato quasi tutti i giorni a recarmi in fabbrica. Tornato a casa dal lavoro mi godo la famiglia e le mie passioni come ad esempio suonare nel mio stanzino della musica e pubblicare video su Youtube.
Dopo pochi giorni dall’inizio del lockdown mi sono abituato a questa situazione, senza troppo trasporto o ansia, ma anche senza particolare entusiasmo. Poi un giorno un amico col quale qualche tempo fa abbiamo organizzato una grigliata di beneficenza, lancia nella chat del gruppo organizzatore una provocazione: «In questo tempo di conversione, perché non convertiamo questa chat? Ci sarebbe bisogno di aiutare medici e infermieri dell’ospedale che sono senza cena».
Vengo immediatamente strappato dalla mia comfort zone. Una proposta non prevista, non scontata, a tratti rischiosa (solo dopo qualche tempo abbiamo ottenuto i permessi per girare per la città). In pochissimi giorni, attorno a questo amico si crea una rete di famiglie, di aziende produttrici di generi alimentari, di supermercati, tutti a preparare la cena per una trentina di persone del Pronto soccorso e dei due reparti Covid dell’ospedale. Noi, poi, passiamo a ritirare il cibo nelle varie case e facciamo la consegna nei reparti, tutti i giorni della settimana.
All’inizio lo stupore nel vederci arrivare era grande, infermieri, medici e Oss continuavano a chiederci: «Ma chi siete?». Più di qualche volta abbiamo visto gli occhi dietro alle mascherine gonfiarsi di lacrime per la commozione grata. Poi nel tempo il gesto è diventato un rituale, ci aspettano, non ci chiedono più chi siamo, ma sanno che arriviamo.
Ma perché io continuo ad andarci? Sicuramente non vado (solamente) per far del bene. Vado per me, principalmente per me e per il mio desiderio di essere felice. La ripetizione di un gesto tutti i giorni può diventare anche scontato, banale, può svuotarsi del significato. Ma io non posso non riconoscere come questo semplice gesto mi aiuta. Anzi mi dona un’occasione, un’occasione di essere raggiunto dalla grazia di Gesù che ha scelto un modo così nuovo e semplice per farmi sentire il Suo bene nei miei confronti.
Così il viaggio verso l’ospedale in macchina con un amico diventa una possibilità, un’occasione; lo sguardo commosso di una infermiera dietro la mascherina diventa un’occasione. Ma un’occasione di cosa? Un’occasione per me di ricevere la Grazia della sua Presenza. Alessandro D’Avenia nel suo editoriale del lunedì sul Corriere scrive: «La resurrezione è una rivoluzione da ricevere, non da fare (“Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me”). (…) Risorgere è la ricetta per dare infinito gusto alla vita, perché permette di riconoscere la vita nascosta in ogni cosa: a casa, al lavoro, nel dolore, nella fatica, nelle relazioni, nella luce sulle foglie… in tutto, perché solo ciò che viene fatto con e per amore diventa vivo. Così la “vita di sempre” diventa la “vita per sempre”. Solo così “ce la faremo”».
Donato Maccapani
21 aprile 2020
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