Un dialogo tra Carlo Rovelli, Alberto Mantovani e Giovanni Boniolo.
Negli ultimi decenni del Novecento si è consumato una sorta di divorzio consensuale tra filosofi e scienziati, sancito per esempio dalle parole del fisico Stephen Hawking che diceva che i filosofi non sono riusciti a tenere il passo con il progresso delle teorie scientifiche, e dunque dichiarava morta in qualche modo la filosofia. ‘Perché la scienza ha bisogno della filosofia’ è invece il titolo diretto, senza fronzoli, di un articolo uscito da poco sulla rivista scientifica PNAS, nove gli autori e le autrici, equamente distribuiti tra filosofi della scienza e scienziati, che non solo sostengono il valore culturale della filosofia, ma entrano nel merito di come gli strumenti della filosofia abbiano un impatto produttivo positivo nella ricerca scientifica, addirittura nei laboratori. Con un linguaggio lontano dal cosiddetto gergo specialistico, filosofico, scientifico, molto piano e diretto fanno esempi concreti tratti da alcuni campi di frontiera delle scienze della vita: si parla di cellule staminali, di neuroscienze, di sistema immunitario, di lotta e di comprensione del cancro.
Tra gli autori dell’articolo ci sono Carlo Rovelli, fisico teorico che lavora all’Università di Marsiglia, scrittore, il suo ultimo libro è Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, e Alberto Mantovani, immunologo dell’istituto clinico Humanitas di Milano. Li abbiamo intervistati assieme a Giovanni Boniolo, filosofo della scienza all’Università di Ferrara, che non è tra gli autori ma lavora su questi temi da anni.
Rossella Panarese: Quali sono gli strumenti della filosofia che gli scienziati non hanno nella loro formazione e che sono particolarmente utili, produttivi, positivi nella ricerca scientifica?
Carlo Rovelli: Sono molti e dipendono dal tipo di scienza di cui parliamo. La filosofia entra in modi diversi in campi diversi: nella medicina entra in un modo, nella biologia in un altro, nella fisica in un altro ancora. Nel mio campo, che è la fisica, forse è più facile vedere il ruolo della filosofia, perché basta ripassare la storia. Se guardiamo ai passi maggiori compiuti dalla scienza nei secoli, fino ai tempi moderni, e se guardiamo alle figure maggiori che hanno contribuito di più allo sviluppo della fisica, troviamo personaggi pieni di filosofia e molto influenzati dalla filosofia del loro tempo. Non solo Galileo e Newton, ma anche Einstein, Heisenberg – il padre della meccanica quantistica – sono scienziati che conoscevano a fondo la filosofia del loro tempo, e che ne sono stati ispirati direttamente nell’intraprendere passi cruciali nella comprensione del mondo. Quando persone come Weinberg o Hawking, negli ultimi anni, dicono che la filosofia oggi non serve più, penso stiano facendo un grande errore di prospettiva storica. Oggi la filosofia, alla fisica teorica, serve ancora tantissimo. Questo vale per la fisica, il discorso per la medicina e la biologia è un po’ diverso.
Rossella Panarese: Lei ha sempre avuto uno spiccato interesse per la filosofia. In una delle prime cose che ha scritto ricordava il pensiero di Anassimandro e nel suo ultimo libro c’è un articolo ‘Serve la filosofia della scienza?’. Nella storia della fisica, per molto tempo i fisici sono stati filosofi della scienza e viceversa. Ma vale anche il contrario, Kant conosceva molto bene la scienza del suo tempo.
Carlo Rovelli: Lei prima ha parlato di un divorzio consensuale, tra scienza e filosofi. Io direi che è un pessimo divorzio, perché c’è una parte della scienza che ha voluto tenersi lontano dalla filosofia e in questa maniera si è impoverita. Ma vale anche il contrario: la migliore filosofia, la grande filosofia europea per esempio — basta pensare a Kant o anche persino a Hegel — è sempre stata fortissimamente influenzata dalla scienza del suo tempo, si è intrisa della scienza del suo tempo. C’è una parte, un piccola parte della filosofia di oggi che si tiene lontano dalla scienza e la vede come una specie di sapere minore e poco interessante. Penso che sia l’altra faccia della medaglia rispetto al pensieri di quegli scienziati che vogliono ignorare la filosofia. La filosofia migliore oggi, e ce n’è molta, nei paesi anglosassoni e in Italia, è quella che è al corrente della scienza e che si confronta con i problemi della ricerca e che considera il sapere scientifico come una parte cruciale del nostro sapere sul mondo.
Rossella Panarese: L’articolo pubblicato su PNAS, ‘Why science needs philosophy’, entra nel merito con alcuni esempi tratti dalla ricerca contemporanea nel campo delle scienze della vita. Per esempio il sistema immunitario e le sperimentazioni che riguardano la potenzialità degli studi per combattere i tumori. In che modo alcune teorie filosofiche sono entrate in modo netto, deciso, nella ricerca scientifica in questo campo?
Alberto Mantovani: Il nostro organismo ha due massimi sistemi, per usare una metafora galileiana, il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale. L’ultimo autore dell’articolo che abbiamo pubblicato, Thomas Pradeu, è un filosofo che ha lavorato in un laboratorio di immunologia, mentre uno dei due primi autori, Paolo Mantovani, è un filosofo che ha contribuito alla parte cognitiva del legame tra scienza e filosofia. In immunologia un approccio filosofico ci sta aiutando a porre in un contesto generale, la teoria di come funziona il sistema immunitario, una teoria del self contro il non-self, la distinzione cioè tra sé stesso e non sé stesso, e in questo momento c’è una teoria originata proprio da Pradeu, con un collega immunologo, Enric Vivier, della percezione della discontinuità come elemento base, a fondamento del sistema immunitario.
Rossella Panarese: Quando si parla di discontinuità cosa si intende?
Alberto Mantovani: Si intende la percezione di un’interruzione, del pericolo della discontinuità fisica, del danno fisico; per esempio quando abbiamo una ferita e interviene il sistema immunitario a riparare la ferita. Per il resto, a livello delle scienze cognitive l’impatto è stato enorme, ad esempio filosofi come Daniel Dennett hanno davvero improntato e anticipato la ricerca sulla modularità della mente, sul funzionamento del sistema nervoso centrale. Ancora: le scienze cognitive e gli approcci filosofici alle scienze cognitive sono stati e sono, almeno per me, molto importanti nel comprendere approcci corretti alla nomenclatura del sistema immunitario, al valore d’uso di nomenclature imperfette. Vorrei riprendere il messaggio di Carlo Rovelli: la filosofia che ci interessa è una filosofia che è in continuità con la scienza. Una delle cose che proponiamo è ad esempio che i filosofi vengano nei laboratori, si rendano conto di come facciamo ricerca scientifica, chiediamo che i due mondi si contaminino al servizio della conoscenza e della salute.
Rossella Panarese: L’articolo è scritto in modo molto lineare, con esempi e considerazioni, e poi ci sono alcune raccomandazioni, alcuni suggerimenti. Perché la domanda è: in che modo si possono favorire le relazioni, il lavoro collaborativo, gli intrecci tra filosofi e scienziati? Vuol dire non solo essere consapevoli della presenza di questi due ambiti, ma lavorare a una formazione specifica, per esempio in campo medico, che è il più sensibile.
Giovanni Boniolo: Quello che diceva Carlo Rovelli è corretto, a un certo momento c’è stata questa divisone tra scienza e filosofia che da un punto di vista storico potrebbe essere collocato agli inizi della Seconda guerra mondiale, per motivi sociologici e culturali. A prescindere da questo, una cosa molto importante è far sì che scienza e filosofia dialoghino tra di loro in maniera non superficiale. E questo può essere fatto insegnando ai filosofi la scienza, cioè portandoli in laboratorio come diceva Alberto Mantovani, ed è un’esperienza che noi in Italia abbiamo avuto per dieci anni a Milano, un PhD internazionale in cui i filosofi entravano in laboratorio per imparare quella scienza di cui poi parlavano. Si trattava di scienza biomedica, di ricerca fondamentale sul cancro, un’esperienza che è durata dieci anni ma poi è finita come tutte le cose belle in Italia; però c’è anche l’altra faccia: cioè l’inserimento nei curriculum del ricercatore in ambito biologico e del medico, soprattutto clinico, di nozioni fondamentali di filosofia. Che non sono nozioni di metafisica, ma cose che possono servire.
Rossella Panarese: Quali sono gli esempi? Perché quando parliamo degli strumenti della filosofia, in parte parliamo di strumenti costitutivi del nostro stesso conoscere, delle procedure con cui conosciamo.
Giovanni Boniolo: Sia nel corso di laurea di medicina nel quale lavoro, sia in una summer school per ricercatori in ambito biologico, quello che diciamo loro sono prima di tutto ad esempio cose molto basilari: cos’è il metodo scientifico? Vi è una discussione a livello internazionale che molti dei risultati scientifici, soprattutto in ambito biologico, non sono ripetibili o riproducibili. Quindi insegnare cosa significa la ripetibilità è una questione filosofica. Un altro esempio può essere legato all’interpretazione del calcolo della probabilità: molti dei risultati in ambito di clinical trials basano la loro supposta efficacia su un’entità statistica che si chiama p-value, però il problema di capire che cosa sia questo p-value e se effettivamente abbia una valenza soltanto statistica o abbia anche una valenza scientifica, una valenza clinica, è una questione di interpretazione filosofica, e quindi avere una base di filosofia della probabilità aiuta a fare meglio i lavori di analisi statistica dei dati. Oppure: il caso dei test clinici; un test clinico ha la sua validità in base a quella che si chiama la sensibilità, la specificità, la capacità di eliminare i falsi positivi e i falsi negativi. Ebbene anche questo è un problema non squisitamente tecnico, che comporta una qualche consapevolezza filosofica. Significa capire cosa sono le basi filosofiche della probabilità.
Rossella Panarese: Rovelli, il vostro articolo comincia con una citazione di Albert Einstein, molto efficace, del 1944: a volte gli scienziati appaiono come coloro che hanno visto migliaia di alberi senza mai vedere una foresta. E poi aggiunge, Einstein: l’indipendenza determinata dall’analisi filosofica è il segno di distinzione tra un mero specialista e un cercatore autentico della verità.
Carlo Rovelli: C’è tutto Einstein in questa frase, e direi che lui non solo ha sottolineato tanto e a lungo l’importanza di guardare una foresta e non gli alberi, l’importanza di una cultura vasta, di un sapere filosofico per gli scienziati. Non solo l’ha teorizzato ma direi che Einstein ha anche dimostrato l’efficacia di questo approccio alla conoscenza, perché poche persone hanno avuto i suoi risultati scientifici nel secolo scorso. È proprio un esempio splendido quello di Einstein: la scienza stessa va avanti con una combinazione di metodi che mettono insieme dagli aspetti più tecnici di operazioni di laboratorio, di calcoli, di equazioni, a questioni concettuali più grandi.Nel momento in cui si mettono insieme le cose, si capisce, e una senza l’altra non funzionano. E vorrei dire una cosa riguardo all’Italia a questo proposito. In questa capacità di mettere insieme cultura filosofica e sapere tecnico-scientifico l’Italia è uno dei paesi migliori nel mondo. L’educazione italiana funziona molto bene, e gli scienziati italiani nel mondo sono molto apprezzati in tantissimi campi diversi. L’educazione italiana, a differenza di quella francese o inglese o americana, ancora lascia spazio, molto, all’avere una cultura filosofica, storica e tecnico scientifica. E questo spesso costituisce uno degli elementi di forza dei nostri scienziati migliori, nel mondo. Guardando alla storia: Fermi aveva una grandissima conoscenza. Nell’ambito della filosofia, la scienza è nel DNA della filosofia italiana. Io mi ricordo che da ragazzo ho imparato molto sull’enciclopedia curata da Ludovico Geymonat, che insisteva sulla contiguità tra sapere scientifico e filosofico come uno degli elementi centrali della storia del pensiero.
Rossella Panarese: Oggi le scienze della vita sono diventate un terreno di grande complessità. C’è stata un’accelerazione, che è un buon segno, ma che si sta dimostrando difficile da gestire.
Alberto Mantovani: Vorrei richiamare il pensiero con cui abbiamo concluso l’articolo, un pensiero di Carl Woese che noi prendiamo in prestito: il pensiero che una biologia che diventa ingegneria della vita senza la capacità di guardare quella che Einstein ha definito la foresta, cioè senza una riflessione critica, è una biologia che mette in pericolo la società stessa. “Rischiamo di andare a batte contro un muro”, è la citazione finale, che richiama un bisogno reale di pensiero critico, e una continuità tra pensiero filosofico cosciente e progresso della scienza, e ricerca scientifica cosciente. Della foresta e non solo dell’albero che ciascuno di noi sta studiando.
Rossella Panarese: La citazione iniziale di Stephen Hawking invece ribalta la prospettiva. Ma, Rovelli, lei ha riposto che dire che la filosofia non è più al passo della scienza è già fare filosofia.
Carlo Rovelli: Esattamente, vuol dire occuparsi di questioni filosofiche! Quando Hawking parla di queste cose sta parlando di metodologia della scienza, di filosofia della scienza, e gli scienziati hanno bisogno di parlare di come funziona la scienza, devono chiedersi se quello che stanno facendo è corretto dal punto di vista del metodo. E lo fanno male se hanno poca conoscenza con tutto quanto è stato detto e scritto sulla metodologia della scienza prima di loro.
Rossella Panarese: La filosofia può dare un contributo fondamentale nell’etica. Oggi pensiamo al contributo della filosofia nelle scienze della vita soprattutto quando dobbiamo occuparci agli effetti dell’impatto nella società.
Giovanni Boniolo: Certamente, l’impatto etico e sociale dei risultati scientifici è enorme, soprattutto dei risultati biomedici in questi ultimi anni. Anche qui vi è la necessità di sapere qual è la scienza che è in gioco. Che cos’è una staminale, che cos’è un organismo geneticamente modificato, che cos’è CRISPR? Ma c’è la necessità di sapere anche cosa sia l’etica. Perché una cosa che non smetto mai di sottolineare è che come esiste una best knowledge in campo scientifico, esiste anche una best knowledge in ambito filosofico e in ambito etico. Non si può pensare di improvvisarsi filosofi o eticisti, come non si può pensare di improvvisarsi biologi, fisici, matematici. Occorre una lunga preparazione, ed è per questo che quando ci si occupa delle intersezioni tra fisica e filosofia, tra medicina e filosofia, tra matematica e filosofia, bisognerebbe avere competenza in entrambi i campi. Ed è per questo che forse noi italiani siamo fortunati, da questo punto di vista: grazie agli studi che possiamo fare sia a livello di educazione primaria sia a livello secondario, possiamo avere entrambe queste formazioni, necessarie.
Carlo Rovelli: Sulla prospettiva storica ho scritto un altro articolo, dal titolo ‘Physics Needs Philosophy. Philosophy Needs Physics’, poi tradotto in italiano e pubblicato sul Corriere della Sera. Ero stato invitato a una conferenza di filosofia della scienza a London School of Economics, per parlare di questo tema e casualmente, mentre scrivevo, ho trovato un testo di Aristotele, che da giovane discuteva esattamente di questo, di cosa serve la filosofia alla scienza e viceversa. Aristotele: stiamo parlando di 24 secoli fa. E sono andato a studiare i suoi argomenti e li ho trovati sorprendentemente buoni e attuali per rispondere alle voci, che esistono ancora oggi, che dicono la filosofia non serve a niente. È soprattutto di metodologia che parla Aristotele, che è tutt’altro che statica nella scienza. “La filosofia”, scriveva, “offre una guida su come la ricerca deve essere condotta”.
Estratto dall’intervista a Radio3 Scienza, su Rai Radio3. Potete ascoltare la conversazione completa in streaming sul sito della trasmissione.