Il valore intrinseco di ogni vita, a prescindere dalle condizioni di salute pregresse del paziente, è la vera vocazione del personale sanitario tesa alla cura della persona. Questi principi sono tornati al centro del dibattito pubblico con la pandemia di Covid-19. Sono bastate le immagini delle terapie intensive piene e delle bare allineate negli obitori a far sbiadire in un attimo le rivendicazioni al suicidio assistito e gli attacchi ai medici obiettori. Insomma quando la morte irrompe sulla scena pubblica con drammatica prepotenza il primato del diritto alla vita torna a stagliarsi nell’orizzonte del bene comune.
Per questo motivo il 42esimo anniversario della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, approvata il 22 maggio del 1978, ha visto una riflessione ancora più profonda da parte di tutti i movimenti pro-life italiani. Le sigle, che da quattro decenni si battono per rimuovere ogni ostacolo che impedisce la nascita di un bambino, hanno ribadito con forza che la vita, la natalità, la maternità e la gravidanza non possono essere ridotte ad un fatto privato, che la donna non può essere lasciata sola davanti ad una scelta così drammatica e che ogni nascituro è una speranza di riscatto per il futuro di tutta l’umanità.
La prossimità verso le donne che vivono gravidanze difficili è stata dunque la vera sfida ai tempi del coronavirus. Le misure di contenimento del Covid hanno infatti ridotto, se non cancellato, qualsiasi occasione di contatto con queste madri in condizioni di grave disagio sociale ed economico che sono state confinate nelle loro case. I centri di aiuto alla vita e i consultori hanno continuato la loro attività ma spesso le restrizioni alla mobilità hanno impedito molti possibili e non programmati contatti tra i volontari pro-life e le ragazze in difficoltà.
A queste limitazioni si è aggiunta una vera e propria offensiva portata avanti da alcuni governi che, con la scusa lockdown, hanno introdotto misure per allargare ancora di più le maglie di accesso all’interruzione di gravidanza. Ad esempio durante la quarantena la Nuova Zelanda ha approvato una delle leggi più permissive al mondo, portando il limite dell’aborto fino al nono mese di gestazione; in Francia sono state votate disposizioni che forniscono ulteriori due settimane rispetto ai termini della legge e la stessa cosa è stata fatta in Gran Bretagna. Anche in Italia non siano stati esenti da queste sortite ideologiche, con il consiglio regionale della Toscana che, la scorsa settimana, ha presentato una risoluzione per incentivare e favorire l’aborto domestico per via farmacologica e per limitare il numero dei medici obiettori di coscienza. Queste iniziative legislative sono state supportare dai soliti movimenti pro-aborto che lamentano una limitazione all’accesso all’interruzione di gravidanza che nei fatti non esiste.
E’ vero invece il contrario, le donne in difficoltà spesso non trovano alcun sostegno concreto nei confronti di una genitorialità problematica e si imbattono solamente con chi propina loro una scelta mortifera. In questa corniche le realtà pro life hanno profuso uno sforzo rinnovato nella creatività.
L’impossibilità del consueto incontro in carne ed ossa è stata superata sfruttando al meglio le potenzialità del web. Così ha fatto il Servizio per le maternità difficili della Comunità Giovanni XXIII, che tramite un lavoro di indicizzazione Seo su Google, è riuscito a raggiungere molte donne disperate che cercano sulla Rete la parola “aborto”.
In pratica le mamme che cercano informazioni sull’interruzione di gravidanza arrivano al servizio della Comunità fondata da don Oreste Benzi. L’indicizzazione di parole relative all’aborto porta queste donne su un’apposita pagina creata sul sito della Giovanni XXIII che offre ogni tipo di informazione sui numeri verdi, i centri di ascolto, i volontari e i sostegni economici dedicati alle donne in gravidanza. Si è verificato pertanto che le richieste di aiuto sono aumentate esponenzialmente nell’ultimo anno e sono perfino raddoppiate durante il lockdown.
I risultati sono sorprendenti: sono 23 i bimbi salvati dall’aborto nei primi quattro mesi del 2020 e ogni giorno i volontari della Giovanni XXIII ricevono mediamente 5 contatti tramite il sito web, WhatsApp ed il Numero Verde da parte di mamme e papà che chiedono informazioni sull’interruzione di gravidanza. “Durante il lockdown sono raddoppiate le persone che ci hanno contattato a causa della difficoltà a rivolgersi in consultorio o all’ospedale. Ancora una volta abbiamo constatato che quando le donne e le famiglie sono aiutate con opportuni sostegni, allora molte decidono di continuare la gravidanza e dare alla luce un figlio. Questa è la vera libertà, quella senza condizionamenti”, ha spiegato Giovanni Paolo Ramonda presidente della Papa Giovanni XXIII.
25 maggio 2020
Servizio maternità difficili, 23 bambini salvati dall’ascolto