L’OSSERVATORE ROMANO – Nessuno è nato in catene

By 24 Giugno 2020Attualità

La feroce uccisione dell’afroamericano George Floyd, avvenuta alcune settimane fa negli Stati Uniti, oltre a scatenare proteste, anche violente in alcune città americane, ha sollevato un acceso dibattito sulla questione del razzismo e sulle sue radici. In una lettera a nome di 54 paesi dell’Africa, l’ambasciatore del Burkina Faso presso il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc) a Ginevra ha presentato ufficialmente, la scorsa settimana, una richiesta, accolta poi dalla presidenza, per discutere urgentemente del razzismo e della violenza della polizia nel contesto della mobilitazione mondiale seguita alla morte di Floyd.

Sta di fatto che per comprendere la fenomenologia del razzismo, con particolare riferimento ai patimenti subiti dalle popolazioni afro, può essere utile qualche rapido cenno alla sua principale fonte: lo schiavismo. Si tratta dell’assoggettamento di manodopera a costo zero, noto nella storia millenaria del continente africano, incentrato sull’opposizione ideologica civiltà/barbarie, superiore/inferiore e identità/alterità. Esso evoca solitamente nell’immaginario nostrano bastimenti carichi di uomini ridotti a merce, a bordo di navi negriere che solcavano l’Oceano Atlantico, deportando schiavi in catene. In effetti, il trasferimento forzato di milioni d’africani dalle coste del Golfo di Guinea, fino alle colonie europee nelle Americhe — di cui peraltro Floyd era discendente — fu preceduto, accompagnato e per certi versi, addirittura superato nel tempo da una seconda tratta, meno conosciuta, ma certamente altrettanto feroce. Stiamo parlando della rotta attraverso il deserto del Sahara e le regioni dell’Africa Orientale, verso il Maghreb, l’Egitto, il Medio Oriente e l’Oceano Indiano. Testimonianze storiche indicano che già nel secondo millennio avanti Cristo, gli egizi ricevevano dalla Nubia (regione settentrionale del moderno Sudan) gruppi di prigionieri afro che venivano ridotti in schiavitù. Per non parlare della dominazione romana in Africa che determinò un rilevante commercio di schiavi, utilizzati come manodopera, soprattutto nelle campagne, negli immensi latifondi dei ricchi proprietari terrieri che li sfruttavano al posto di contadini liberi e salariati. Nei secoli successivi, all’inizio dell’epopea coloniale, il fenomeno gradualmente riprese con una sua precisa connotazione. Infatti, a differenza di quanto avvenne nelle Americhe, la potenza degli stati autoctoni africani fu tale da scoraggiare sino all’epoca della rivoluzione industriale, all’incirca il XIX secolo, qualsiasi conquista su scala continentale.

Contrariamente a quanto comunemente si pensa, gli insediamenti portoghesi lungo le coste africane non furono che un primo tentativo di penetrazione; la colonizzazione vera e propria si avrà solo nell’Ottocento, grazie anche alle spedizioni di innumerevoli esploratori e missionari europei. A ciò si aggiunga che i sovrani africani dai quali i negrieri acquistarono la merce umana, a partire dalla fine del Quattrocento, governavano imperi più vasti di qualsiasi moderna nazione europea. La merce principale di scambio era il prezioso “legno d’ebano”: così venivano chiamati in codice gli schiavi, unitamente alle armi da fuoco che giocarono un ruolo di primo piano, come oggi d’altronde, per la conquista e il controllo del potere. Alla fine del Seicento, ad esempio, si impose il potente stato degli Ashanti sotto la guida carismatica di Osei Tutu: questo regno estese il suo controllo lungo tutte le coste degli odierni stati del Ghana e della Costa d’Avorio. Quello degli Ashanti fu certamente il più potente degli stati che si svilupparono tra la fine del Quattrocento e l’Ottocento sulla dorsale atlantica, dalla foce del Senegal sino ai confini occidentali del Camerun. Questi governi autoctoni africani si consolidarono fortemente con l’intensificarsi degli scambi commerciali con l’Europa; naturalmente gli schiavi erano la merce più pregiata. Ad esercitare il potere erano classi egemoni, a volte dinastie, che aveva ai loro ordini un apparato militare e uno burocratico capace di riscuotere e amministrare le imposte dei sudditi. È vero che l’organizzazione politica dei regni africani non si estese in modo uniforme su tutto il continente, vista anche la moltitudine di “stati senza stato”, cioè piccoli gruppi tribali di agricoltori senza norme statuarie. Ma è anche vero che si consolidò gradualmente un rapporto tra Africa ed Europa dovuto ai crescenti scambi commerciali. Non v’è dubbio che lo schiavismo fu una vergogna per tutti: per i mercanti europei, i negrieri, che comprarono senza scrupoli la merce umana e per i capi africani che barattarono milioni di giovani con rhum, acquavite, polvere da sparo e fucili. Ma queste élite pagarono esse stesse un prezzo altissimo poiché furono schiacciate a una a una dalle potenze coloniali: l’ultimo sovrano degli Ashanti si arrese nel 1896 a un corpo di spedizione venuto dal mare per fare del suo regno una colonia della Corona britannica.

Per quanto concerne l’altro versante dell’Africa, quella orientale, è ancora oggi scioccante leggere la testimonianza del Capitano Moresby, ufficiale della Marina di Sua Maestà Britannica per comprendere le vicissitudini a cui vennero sottoposti milioni d’innocenti. «I neri sono ammucchiati nella stiva del battello come merce sciolta» scriveva l’ufficiale, precisando che «la prima fila di persone, una accanto all’altra, viene sistemata sul fondo dello scafo. Sopra, è posta una piattaforma, sulla quale viene sistemata una seconda fila, e così via, fin sotto la coperta dell’imbarcazione. Si hanno notizie di battelli partiti da Kilwa con 200-400 schiavi ed arrivati 10 giorni dopo a Zanzibar con solo una decina di vivi». Il suo diario è una delle prove più sconvolgenti della brutalità della tratta degli schiavi nell’Africa orientale tre secoli fa. Non mancarono, naturalmente, anche voci di denuncia come quella dell’esploratore e missionario scozzese David Livingstone (1813-1873). «Se si vuole essere sinceri — scrisse — devo ammettere che non mi sarebbe possibile ampliare anche minimamente le dimensioni di questo male: quando si parla di questo infame commercio, risulta semplicemente impossibile esagerare! Lo spettacolo che ho avuto sotto gli occhi è stato orribile!». Il santo Daniele Comboni, padre della Chiesa cattolica sudanese (1831-1881) gli fece eco, denunciando che «l’abolizione dello schiavismo, deciso dalle potenze europee a Parigi nel 1856, è lettera morta per l’Africa Centrale». Ancora oggi, al centro della capitale sierraleonese, Freetown, svetta il “Cotton tree”, un albero maestoso e secolare attorno al quale veniva radunata quella negritudine dolente, proveniente dall’entroterra, per essere vilmente venduta ai negrieri europei o d’oltre oceano. Per questo paese il “Cotton Tree” è diventato il simbolo della libertà riconquistata da un popolo costretto per secoli a subire indicibili umiliazioni. Fu proprio in coincidenza con l’abolizione dell’ignobile tratta che la Corona di Sua Maestà Britannica decise d’inviare in questa terra le popolazioni afro che avevano finalmente ottenuto la libertà. Con grande entusiasmo, nel 1787, il filantropo inglese Granville Sharp ribattezzò la regione “The Province of Freedom”. Lentamente, poi, a partire dal 1896 vennero annessi amministrativamente anche i territori dell’interno, che formeranno lo Stato moderno della Sierra Leone. Una cosa è certa: come ebbe a scrivere il grande e indimenticabile Nelson Mandela, «nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli».

di Giulio Albanese

24 giugno 2020

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