ITALIA OGGI – Briglia sciolta del Pd al M5s

By 25 Giugno 2020Attualità

Mentre il ministro degli esteri della Repubblica italiana, Luigi Di Maio, vola a Tripoli per testimoniare, oltre all’incapacità sua propria, la propensione all’affondamento del suo Paese e del ruolo esercitato in passato nello scacchiere, Macron si confronta duramente con Erdogan (per ciò che ha combinato e sta combinando con Serraj, premier libico) minacciando conseguenze nell’Alleanza atlantica. Certo, è difficile riferirsi alla Francia quando si affronta il tema, visto che Sarkozy fu uno di coloro che vollero affondare Gheddafi, alleato dell’Italia, e aprire la porta al caos libico, con i rischiosi arrivi di Russia, Turchia, Emirati arabi uniti, Qatar, Arabia saudita ed Egitto. Ma tant’è, in qualche modo l’Eliseo finge di non piegarsi allo stato di fatto realizzato da Erdogan, mentre l’Italia per atti e parole del ministro degli esteri si piega e sembra implorare ad Ankara un posto a tavola.

Nell’economia complessiva dell’azione di governo, i 5Stelle hanno appaltato la loro privativa in politica estera, nella quale, nella lectio attuale (accettata da Matteo Salvini) è compreso tutto ciò che riguarda il commercio estero. Né il premier, né il Pd sembrano occuparsi e preoccuparsi dell’azione di Di Maio, che, sin qui, ha prodotto danni irreparabili e relazioni compromettenti, come quella con il drago cinese.

Il ragazzotto – in senso politico – di Pomigliano d’Arco continuerà indisturbato a far danni e a promuovere l’alternativa leghista nel silenzio complice dei dirigenti del Pd, incapaci di qualsiasi dialettica infragovernativa, succubi e silenti di fronte alla deriva che sta trascinando il Paese oltre la Serie B. Ancora più in basso. Dobbiamo peraltro accettare che dopo uomini discussi ma di forte personalità come D’Alema e poi Renzi, il partito della sinistra democratica italiana che è stato di centro-sinistra e che poi ha perso il «centro», si è riorganizzato intorno a una dirigenza mediocre, difensiva e legata a una visione esclusivamente partecipativa – cioè spartitoria – dell’attività di governo.

Per memoria, dobbiamo ricordare che la Prima repubblica è crollata sotto i colpi giudiziari, volti innanzi tutto contro i partiti che, della Costituzione del 1948, erano parte fondante e pilastri democratici. L’aggressione all’istituzione-partito è stato il più importante contributo che la corporazione ha dato all’attenuarsi delle garanzie democratiche e all’emergere di populismi e sovranismi.

Non scopriamo l’America se ricordiamo che Nicola Zingaretti è un politico senza leadership, un uomo da tran-tran di apparato e quindi rassicurante per la nomenklatura che condiziona la vita e l’attrattività del partito. La nomenklatura ex democristiana (quella che aveva costruito la Margherita anche per l’incontro felice con un politico moderno come Francesco Rutelli) e quella ex comunista che aveva inventato il Pds prima e poi, sull’onda dell’antipolitica i Ds (eliminando dalla sigla la parola «partito») avevano una sola, evidente vocazione: perpetuare se stesse, attraverso una serie di esperienze di governo.

I governi di centro-sinistra si autoaffondarono l’uno dopo l’altro, ma il più significativo affondamento è rappresentato dalla fine del governo D’Alema. Con le difficoltà che una svolta comportava, D’Alema ricondusse l’Italia al centro strategico dell’Alleanza atlantica, con la partecipazione alla Guerra del Kosovo e, in politica interna, avviò le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni. Oggi, ci rendiamo conto come e quanto avrebbero significato per l’Italia la trasformazione del mercato del lavoro con il miglioramento di tutti i meccanismi che dovrebbero animarlo e, soprattutto, con l’abolizione dei vincoli del passato. Ma la Cgil e del suo politicamente stolido Cofferati si misero di traverso conducendo il Paese al governo di transizione Amato II e alla vittoria di Berlusconi del 2001.

Il secondo passaggio cruciale, avvenne nel 2007, con Valter Veltroni: si chiamò partito a vocazione maggioritaria. Si trattava dell’idea di un partito-schieramento nel quale si sarebbero composte le varie anime del centro e della sinistra unite dal riformismo, cioè dalla trasformazione in senso modernista della Nazione. Debole, oltre che di pensiero, anche di carattere, Veltroni contraddisse subito, con l’azione la sua idea e di fronte al pericolo di una sconfitta -che si materializzò nel 2008- e abbandonò la nave al cui comando era stato posto.

La terza opportunità si realizzò con la vittoria di Renzi, il cui discorso di rinnovamento conquistò aderenti e simpatizzanti portandolo alla segreteria e al governo. Nel 2013, Renzi non avrebbe vinto il congresso se il gruppo dirigente vecchio, bolso e incapace di iniziativa non avesse incontrato il fallimento. Il tentativo riformista del giovane fiorentino s’è arenato come sappiamo anche per il contributo decisivo delle nomenklature di cui sopra.

Ci sarà una quarta occasione?

Non credo proprio, visto che, dopo Renzi, il partito è finito nelle mani degli eredi del gruppo dirigente crollato nel 2013. Per vari motivi, il primo dei quali è che Zingaretti&suoi sono le terze linee di quel gruppo e quindi mancano non solo di leadership, ma di consistenza politica. Bastino due constatazioni: l’esclusione dal governo dei due politici più quotati, validi ed esperti di cui disponessero, come Pier Carlo Padoan (economia) e Marco Minniti.

Perché ci sia una quarta chance, il congresso prossimo venturo dovrebbe ribaltare la situazione portando ai vertici gente capace e provata come Stefano Bonaccini, la cui gestione dell’Emilia Romagna è stata convincente in termini politici ed elettorali. Non accadrà. I piccoli interessi di bottega prevarranno. Purtroppo, poiché un forte schieramento di centro-sinistra democratico e riformatore sarebbe un buon fertilizzante per il Paese e per il ritorno a un’alternanza fisiologica, priva delle asprezze dei giorni nostri.

Domenico Cacopardo

25 giugno 20202

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