Davanti a giovani vite spezzate emerge ancora più nitidamente il dilagare di un sistema di morte, radicato anche in Italia, sempre più finalizzato a liberalizzare le droghe definendole erroneamente “leggere”. In realtà gli scienziati, i medici, le persone che studiano seriamente il fenomeno sanno bene che non esistono sostanze “leggere” e “pesanti”. Di fatto tutte le droghe sono “pesanti”, anzi, sono macigni, perché provocano dipendenza, perdita del senso della realtà, annullamento della coscienza individuale. In una società liquida la dipendenza è diventata invisibile persino agli stessi familiari. Fino agli anni ’80 il “tossico” era un soggetto riconoscibile e quindi ci era più immediato soccorrerlo.
“Non c’è dolore più grande di quello di una madre che ha un figlio drogato. Così come non c’è gioia più grande di quella per un figlio liberato dalla droga”. Queste parole don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Giovanni XXIII, le ripeteva continuamente perché nascevano da esperienze e da incontri reali e concreti. Ho pensato ai genitori dei due ragazzi di Terni uccisi dalle sostanze per quindici euro. Quanto dolore, strazio incontenibile possono vivere quei genitori nel perdere i figli nel momento più promettente dell’esistenza umana. Non c’è dramma più assoluto di un’alba che non potrà mai divenire giorno. Il pericolo inaccettabile è che si riduca la vicenda ad un fatto di sola cronaca. Davanti a giovani vite spezzate emerge ancora più nitidamente il dilagare di un sistema di morte, radicato anche in Italia, sempre più finalizzato a liberalizzare le droghe definendole erroneamente “leggere”. In realtà gli scienziati, i medici, le persone che studiano seriamente il fenomeno sanno bene che non esistono sostanze “leggere” e “pesanti”. Di fatto tutte le droghe sono “pesanti”, anzi, sono macigni, perché provocano dipendenza, perdita del senso della realtà, annullamento della coscienza individuale. L’infelice traduzione delle espressioni inglesi: “hard drugs e soft drugs” ha soltanto agevolato i trafficanti e le varie mafie alimentando il loro business e diffondendo la menzogna di una modalità di assunzione ritenuta meno nociva. Sappiano i nuovi schiavi delle sostanze killer che esiste sempre una via d’uscita dal loro incubo: l’ingresso in una struttura di recupero.
Paradossalmente era più “visibile” lo scenario da “ragazzi dello zoo di Berlino”, quando la tossicodipendenza era agevolmente localizzabile e passibile di delimitazione sociale. Oggi la schiavitù sintetica è indefinibile e sfuggente come il metadone diluito che ha stroncato due esistenze agli albori. In una società liquida la dipendenza è diventata invisibile persino agli stessi familiari. Fino agli anni ’80 il “tossico” era un soggetto riconoscibile e quindi ci era più immediato soccorrerlo. Adesso le sostanze si possono ordinare anche con un click, sfuggono a qualsiasi controllo genitoriale e soprattutto non si accompagnano più necessariamente a condotte e frequentazioni devianti. La cultura di morte che sta dietro il primo business mondiale illegale si struttura in una filiera che dal grande trafficante arriva allo spacciatore di quartiere passando attraverso le complicità e le connivenze di astuti influencer di morte che contrabbandano per libertà la peggior forma di asservimento. Ma se questi due adolescenti fossero stati i figli di uno scintillante sponsor dello sballo, cosa direbbero adesso?
Tutti coloro che continuano a fomentare, anche all’interno delle Istituzioni, la deriva antiproibizionista, ricordino che, evangelicamente, il sangue degli innocenti ricade sempre su chi lo ha versato.
10 luglio 2020
Aldo Buonaiuto