VALIGIA BLU – La pandemia e l’importanza della memoria collettiva di un disastro

By 10 Agosto 2020Coronavirus

La memoria collettiva di un disastro può portare a predisporre tutte le misure necessarie affinché non si ripeta con le stesse conseguenze ma non è detto che le cose vadano così.

Alfred W. Crosby, nel libro America’s Forgotten Pandemic (del 1976 e ripubblicato nell’anno della SARS, il 2003) sull’infezione da virus H1N1, la cosiddetta “influenza spagnola”, del 1918 che causò oltre 50 milioni di morti in tutto il mondo, scrive che

“Studiare gli archivi del popolo americano per il 1918 e il 1919 è come stare su un’alta collina e guardare una flotta di tante navi che navigano in una corrente di una potenza tremenda a cui i marinai prestano poca attenzione. Afferrano saldamente i loro timoni, scrutano le loro bussole e si attengono fedelmente alle rotte che, dal loro punto di vista, sembrano essere diritte, ma noi possiamo vedere che l’oscura corrente li sta trascinando lontano. L’immenso flutto inonda molte delle navi e i loro marinai affogano, ma gli altri quasi non se ne accorgono. Gli altri sono intenti a mantenere le proprie risolute rotte.”

Ciascuno in quelle navi può vederci i paesi o gli ospedali dei paesi che si sono trovati ad affrontare la pandemia della COVID-19 di questi mesi. Crosby si riferiva al mistero e paradosso rappresentati dalla scarsa attenzione prestata alla pandemia all’epoca e dalla sua successiva rapida dimenticanza. Non se ne ritrovano tracce nei racconti biografici dei medici e neppure nelle opere dei grandi scrittori che crearono in quegli anni i capolavori della letteratura americana. Ci furono due uniche eccezioni, scrive Crosby: Thomas Wolfe e Katherine Ann Porter. Porter si era ammalata a causa del virus e scrisse “Bianco cavallo, bianco cavaliere” che, secondo Crosby, non ottenne le stesse attenzioni di un romanzo di Hemingway e Fitzgerald non solo perché non era il prodotto di un intelletto maschile e quindi ritenuto di minore importanza ma perché si trattava della storia di un’esperienza traumatica, “causata da qualcosa a cui la maggior parte delle persone non riconosce grande importanza: la pandemia di influenza spagnola del 1918”. Ma all’epoca c’era la I Guerra Mondiale che catturava tutta l’attenzione. La guerra contribuì a sua volta alla diffusione del virus durante gli spostamenti delle truppe di soldati. La pandemia durò dal 1918 al 1920, il virus infettò circa 500 milioni di persone in tutto il mondo ma non lasciò menomazioni né cicatrici sugli ammalati, né ricordi collettivi. Anche all’epoca le istituzioni sanitarie e governative sottostimarono la gravità dell’infezione, che ebbe una minore copertura sulla stampa statunitense. Diffondendo la paura, si temeva di incoraggiare il nemico in guerra e di sconvolgere l’ordine pubblico. Quando si raggiunse il picco, tuttavia, furono istituite quarantene in molte città e in alcuni stati furono limitati i servizi essenziali.

La sottovalutazione e la successiva dimenticanza è stata anche attribuita al fatto che fino all’inizio del secolo scorso le popolazioni fossero abituate alle epidemie. Questo possiamo dire è ormai anche il nostro caso, se consideriamo tutte le epidemie che si sono succedute dagli ultimi decenni del ventesimo secolo.

È accertato che la pandemia del 1918 vide il fervore di medici e scienziati ma non innescò grandi cambiamenti nelle strutture sanitarie, scolastiche, universitarie e governative. Il suo impatto permanente, scrive ancora Crosby, non fu sulla collettività ma “negli atomi della società – gli individui”.

Le epidemie virali continuano e continueranno a far parte della vita umana ed è sorprendente come non si apprenda a sufficienza da quelle precedenti, soprattutto nelle prime azioni per circoscrivere il contagio. Avremo imparato abbastanza da una grande epidemia come quella della COVID-19? E, soprattutto, ce ne ricorderemo?

Le memorie di un evento traumatico diventano rapidamente inconsistenti per effetto di un processo di dimenticanza che è fondamentale quanto la memoria e necessario all’economia del nostro cervello.

In un noto studio sui ricordi legati agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, raccontato dalla neuroscienziata e coautrice Elizabeth Phelps nell’episodio Memoria della serie La mente in poche parole, William Hirst e collaboratori (2015) hanno dimostrato che anche i ricordi di un evento così traumatico, relativi a dove le persone si trovassero e cosa stessero facendo nei momenti delle esplosioni, diventarono incoerenti entro 1 anno, e nei 9 anni successivi la curva dell’oblio si è rivelata approssimativamente costante.

Nonostante la notevole vividezza soggettiva, anche i ricordi emotivi sono quindi soggetti a distorsione o a una minore accessibilità, non necessariamente a una cancellazione.

Se la curva dell’oblio ha lo stesso andamento per tutti gli eventi traumatici, i nostri ricordi della pandemia si stanno già indebolendo sia a livello individuale sia come collettività. Le memorie autobiografiche sono influenzate da precedenti esperienze traumatiche, personalità, pregiudizi e diretto coinvolgimento o vicinanza con l’infezione e i suoi lutti. Tra le influenze esterne, come affermato da Hirst e collaboratori nello studio del 2015, l’attenzione dei mezzi di comunicazione e la conseguente conversazione sulle notizie diffuse all’interno di una comunità permettono di consolidare i ricordi con un’accuratezza che però dipende dalla fonte. Le influenze esterne possono, difatti, correggere ricordi errati ma possono fare anche il contrario, creando ricordi errati.

Se le informazioni che riceviamo quotidianamente risultano oltre che spesso infondate anche ampiamente contrastanti o si soffermano su dettagli poco rilevanti per riempire il vuoto dell’incertezza (come il plexiglass in spiaggia che per l’eccessivo clamore potrà addirittura diventare da fittizio a ricordo ritenuto reale, oppure più recentemente le ruote dei banchi di classi che resteranno sovraffollate proprio come prima della pandemia), i ricordi tenderanno a essere incoerenti o del tutto discordanti e distanti dagli eventi realmente accaduti.

Le influenze esterne, continuano Hirst e collaboratori, modellano il contenuto della memoria attraverso gli effetti della reiterazione, del contagio sociale e dell’oblio socialmente condiviso che può essere rallentato dalla frequente ripetizione dei fatti accertati nei media e nelle conversazioni di una comunità.

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— George Russell (@GeorgeRussell63) July 31, 2020

Il ringraziamento al Sistema Sanitario britannico da parte della scuderia Williams capitanata da Claire Williams al Gran Premio a porte chiuse di Silverstone

Non spetta dunque solo ai singoli individui il compito di mantenere nel tempo la memoria dei fatti della pandemia causata dal virus SARS-CoV-2, delle sue vittime, dei traumi, dei ritardi, degli errori. Questa missione potrebbe essere svolta da appositi soggetti indipendenti o istituti per la memoria resistenti alla corruzione che i governi e le istituzioni pubbliche dovrebbero essere tenuti a consultare.

Il fatto che non si possa fare soltanto affidamento sulla memoria individuale e collettiva è dimostrato anche da uno studio del 2019 di Václav Fanta e collaboratori sui ricordi delle alluvioni estreme, perché l’attenzione a non costruire nelle stesse aree vale solo per gli anni di una generazione: quella successiva ripeterà gli stessi errori. Per gli autori, è essenziale continuare a ricordare alle persone l’impatto di questi eventi, la loro crescente frequenza a causa dell’emergenza climatica e mantenere viva la consapevolezza nei decenni successivi, specialmente quando non rimangono testimoni oculari viventi nella popolazione.

Come abbiamo potuto sperimentare direttamente da noi e indirettamente mentre il virus si diffondeva in altri paesi, i rischi associati ai disastri e alle emergenze possono essere minimizzati o addirittura ignorati con il risultato che la storia continua a ripetersi, anche quando è ampiamente disponibile una conoscenza estesa e affidabile degli eventi, della percezione e gestione dei rischi, delle modalità di comunicazione e delle strategie di prevenzione o di primo intervento.

Quello che sappiamo finora è che, come avvenne per la pandemia del 1918, la COVID-19 non sta innescando cambiamenti strutturali a livello sanitario, scolastico, universitario e istituzionale. Ci ricorderemo degli “eroi” della pandemia? Al contrario, la situazione dopo i vani annunci sta tornando precipitosamente al periodo pre-pandemia con le puntuali e paventate chiusure di presidi ospedalieri di provincia che hanno fatto da argine alla gestione dell’emergenza sanitaria, con l’ineluttabile ritorno di bambine/i e ragazze/i in classi di 28-30 e più, senza alcun percorso psicoeducativo di transizione verso la ripresa massiva delle attività didattiche, oppure con l’istigazione propagandistica contro i migranti untori.

Quello che non ci è dato sapere (se non per via locale o diretta), e non potremo ricordare, è come stiano gli ammalati, se ricevano le cure riabilitative e il supporto psicologico in servizi appropriati. Non sappiamo se i sanitari e para-sanitari che hanno lavorato al centro dei focolai dell’emergenza abbiano avuto l’essenziale supporto psicologico e un riconoscimento dalla comunità. Non sappiamo come si stiano organizzando le case di riposo nel rispetto della sicurezza e di un’assistenza che assicuri la salute psicofisica dei residenti e la loro sopravvivenza sociale. Non sappiamo se le famiglie colpite dai lutti o le persone più provate dal prolungato isolamento siano supportate.

Stiamo nel frattempo, ognuno come può, costruendo le più apotropaiche memorie d’estate.

Un’osservazione plausibile è che il volume di comunicazioni condivise sulle reti sociali contrasterà la dimenticanza della pandemia. Questo è vero nel breve periodo ma dopo un tempo critico saranno necessarie altre azioni a ravvivare l’attenzione su quanto accaduto. Le nuove tecnologie cambiano da sempre il contenuto delle informazioni e la loro diffusione ma non le rendono più ricordabili. Del decadimento della memoria collettiva si occupa César Hidalgo che nel 2018, quando ancora lavorava al Media Lab del MIT di Boston, ha pubblicato assieme ai suoi collaboratori uno studio – The universal decay of collective memory and attention – che, attraverso un modello matematico, ha individuato le fasi della memoria collettiva: una breve fase iniziale di massima attenzione e una lunga fase successiva di dimenticanza. La pendenza della curva di declino della seconda fase è condizionata dalle azioni promosse per mantenere viva la memoria collettiva. Il lavoro di Hidalgo prendeva in esame specifici contenuti culturali ma se il modello si applicasse anche alla memoria collettiva della catastrofe della pandemia non basterebbero i numerosi libri e le cospicue pubblicazioni scientifiche sulla Covid-19: occorrerà che si parli dei loro contenuti in eventi, conferenze e manifestazioni in modo che le comunicazioni e le conversazioni che svilupperanno possano riportare l’attenzione su quanto accaduto e sulle modalità stesse che saranno messe in atto per ricordare. Come Hidalgo e collaboratori citano nel loro articolo, il loro modello di memoria collettiva può essere espresso nel verso di Pablo Neruda del Poema 20: “È così breve l’amore, è così lungo l’oblio”.

Tiziana Metitieri

10 agosto 2020

La pandemia e l’importanza della memoria collettiva di un disastro