Due notizie solo apparentemente insignificanti. La prima. “Mio figlio in rosa” è un blog di una madre che sta crescendo il suo secondogenito maschio come una femmina. GenderLens è invece un sito che vuole aiutare i bambini a vivere «la propria identità di genere», qualsiasi essa sia.
Queste due piattaforme hanno lanciato l’iniziativa #ScriviBene affinché – tale è l’intento ricercato dagli ideatori della iniziativa – tutti noi possiamo rivolgerci alle persone transessuali con la terminologia corretta ed usando frasi che siano rispettose della sensibilità di queste persone. Alcuni suggerimenti: se un uomo è “diventato” donna, non si deve scrivere «Anna è nata uomo», bensì «Anna è stata assegnata maschio alla nascita» – un vero pugno in un occhio (anzi, in un orecchio) in quanto a concordanza con i generi grammaticali – ciò a motivo del fatto che «la biologia di una persona non “vince” la sua identità di genere».
Un altro consiglio è il seguente: «Non usate gli acronimi MtF o FtM (male to female o female to male). Riducono l’esistenza di una persona al solo corpo e fanno pensare che un uomo trans non sia nato uomo o una donna trans non sia nata donna. Occulta le persone queer e non binari che non si riconoscono nei due generi socialmente riconosciuti e accettati m o f. Ricorda: il genere delle persone non dipende dal corpo. Usa piuttosto l’acronimo AMAB o AFAB (assigned male o female at birth) se proprio devi e col permesso della persona».
Passiamo alla seconda notizia. La sociolinguista Vera Gheno viene intervistata dal sito The Submarine. «Esiste un modo alternativo per rivolgersi a una moltitudine mista che magari comprenda anche persone non-binarie, ossia che non si identificano né con il maschile né con il femminile?» si domanda la prof.ssa Gheno. La studiosa, con asserito approccio scevro da condizionamenti ideologici, rilancia una proposta già avanzata da altri studiosi: usiamo lo scevà. «Per chi non lo conoscesse – spiega la Gheno – lo schwa o scevà (nome italianizzato) è un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale, o IPA, che è un alfabeto che permette di rappresentare per iscritto tutti i suoni presenti nelle varie lingue usate da noi esseri umani. Il simbolo dello schwa è una piccola e rovesciata, ə. Non lo si trova, di norma, nelle tastiere standard, ma nella mappa dei caratteri sì. Il suo è “un suono neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità” (ci dice Treccani); sta al centro del quadrilatero vocalico, cioè tra A, E, I, O, U, e, come dico spesso, corrisponde al suono che si emette se non si deforma in alcun modo la bocca, “a bocca rilassata”. Esiste naturalmente in diversi dialetti meridionali (/Nàpulə/). Per quanto io stessa ne veda i limiti fortissimi, ogni tanto, quando scrivo per contesti nei quali le questioni di genere sono particolarmente sentite, scrivo cose come “Carə tuttə”».
Alcune brevi riflessioni a commento di queste due notizie. Tra realtà e linguaggio c’è un legame profondo: il linguaggio ha la funzione di esprimere e comunicare il mondo, quindi di rivelarlo. Da qui il dovere di chiamare le cose con il loro nome. Tratto comune di tutte le ideologie, compresa la Gender Theory, è creare una realtà inesistente. Ad esempio, una pretesa tipicamente ideologica è volere che un maschio sia femmina. Per creare una nuova realtà occorre: demolire la vecchia realtà e quindi i termini che la indicavano per impedire altre forme di pensiero. Costruire un nuovo mondo anche con l’ausilio di nuovi termini, un nuovo vocabolario che indichi realtà prima inesistenti. Ecco quindi la produzione di un’antilingua (neologismo inventato da Italo Calvino) o di una neolingua (cfr. George Orwell, 1984).
In merito alla prima fase, la fase destruens, sono differenti le soluzioni proposte. Vediamone qualcuna. Cancellare alcuni termini senza sostituirli con nuovi: ad esempio i lemmi “maschio” e “femmina” è bene che, prima o poi, vengano eliminati nell’uso parlato. Cancellare alcuni termini sostituendoli con nuovi: “sesso” con “genere”, “padre/madre” con “genitore 1 e 2”. Il caso più paradigmatico di tutti è il seguente: l’uomo che si percepisce come donna deve essere indicato come donna. La parola “maschio” quindi sarà sostituita dalla parola “femmina”. A questo proposito c’è da sottolineare il fatto che il mutamento di termini provoca contemporaneamente il mutamento del giudizio morale, perché cambiando le parole che descrivono la realtà, cambia non tanto la realtà – perché quella non può cambiare – bensì la percezione della realtà. Se continuiamo a riferirci ad un uomo che appare nelle fattezze come donna usando articoli, sostantivi, aggettivi e pronomi femminili, alla lunga la massa si convincerà che realmente quell’uomo è una donna.
Ulteriore strategia per cancellare una realtà che non piace: costringere l’avversario a trovare specificazioni fino a poco tempo prima inutili. Il termine “famiglia” ora necessita dell’aggettivo “naturale” per distinguerla dalla “famiglia arcobaleno”; “donna” ora abbisogna della qualificazione “biologica” per distinguerla dalla donna “transessuale”. Infine un’ultima tattica linguistica: il depotenziamento di alcuni termini. Ad esempio nelle discussioni sull’omosessualità il termine “natura” ha perso la sua connotazione di impronta metafisica ed è riferito solo a ciò che accade nel regno animale.
19 Agosto 2020
Tommaso Scandroglio
La rivoluzione linguistica per distruggere un ordine di valori