L’eccitazione mediatica che ha accompagnato il rimpasto ministeriale, rimpasto che ha portato ad alcune nomine grottesche, non sorprenderà molto quelli che conoscono bene le abitudini del milieu dei commentatori politici, i quali amano speculare sul destino degli uni e la promozione inattesa degli altri più di ogni altra cosa”, scrive il sociologo e intellettuale canadese Mathieu Bock-Côté. “Nella categoria dei promossi, si trova naturalmente Éric Dupond-Moretti, che fino a ieri liquidava sbrigativamente qualsiasi possibilità di un suo passaggio in politica e oggi si ritrova ministro della Giustizia e Guardasigilli. Ci si potrebbe chiedere perché abbia deciso di perdersi in questo guazzabuglio, in un ruolo che non gli si addice molto. Ad ogni modo, Dupond-Moretti è chiamato a costruirsi politicamente nel campo bioetico, tema che torna al centro dell’attualità, il che ricorda che il macronismo è un progressismo in materia di società. Che la questione bioetica sia complessa, tutti sono d’accordo. Richiederebbe ben altro che un dibattito frettoloso trasformato in guerra lampo in un contesto post pandemico. Più che l’urgenza è una profonda attenzione alla diversità dei punti di vista che dovrebbe ispirare il legislatore, ricordandosi che il principio di precauzione non dovrebbe applicarsi esclusivamente alle questioni ambientali. A quanto pare, i fondamenti antropologici della società devono dissolversi nella logica dei diritti, e il semplice fatto di avanzare qualche riserva dinanzi allo sviluppo di questa logica giustifica la diffamazione del contraddittore che diventerà il “fobo” del momento”.
Sembra ormai impossibile affrontare le questioni di società senza cadere in questa trappola retorica che svuota la politica della sua sostanza. Il progressista ama più di ogni altra cosa far passare ognuna delle sue riforme per un’uscita dalle tenebre da parte di un’umanità alla conquista della sua piena autonomia. Situiamoci all’altezza giusta. Al centro delle leggi bioetiche si trova una questione fondamentale: in che misura l’umanità può sciogliere integralmente il mistero della creazione riappropriandosi per intero delle condizioni scientifiche e tecnologiche della sua riproduzione? Emerge così la figura dell’uomo demiurgo, che non vuole più solo migliorare il mondo riorganizzandolo, e facilitare la vita grazie a un uso giudizioso e persino audace della tecnica, ma trasformare il mondo in laboratorio, al punto da rendere totalmente artificiale l’esistenza. Dall’ingegneria sociale che ha dominato nel Ventesimo secolo, si passa all’ingegneria biologica: l’uomo nuovo doveva nascere al termine della rivoluzione, bisogna ormai affidarne la fabbricazione agli uomini in camice, e possiamo immaginare che i prossimi decenni vedranno una moltiplicazione degli esperimenti sotto il segno dell’eugenetica. Non c’è bisogno di attingere la propria morale da un testo sacro per capire che l’uomo va contro la sua stessa situazione esistenziale lasciandosi divorare dal mito dell’autonomia radicale, che gli fa perdere anche il principio di filiazione. I moderati di professione e altri pragmatici risponderanno che non bisogna avventurarsi in tali considerazioni, rientranti nella teoria del pendio scivoloso. Eppure, sono i nostri progressisti che ci vengono sempre a spiegare che ogni riforma ne chiama un’altra, come se la vita politica non consistesse più in decisioni collettive prese al termine di una deliberazione ponderata, ma solo nell’avallare dei diritti, man mano che si moltiplicano le rivendicazioni portate avanti dalle avanguardie di società.
La distinzione che dovrebbe essere automatica tra la Pma (Procreazione medicalmente assistita, ndr) e la Gpa (Gestazione per conto terzi, ndr) svanirà il giorno in cui si giustificherà la seconda con la prima. I nostri progressisti invitano in misura minore a discutere di una proposta precisa, con le sue virtù e i suoi limiti, rispetto a quanto non ideologizzino a oltranza il dibattito, come se il partito dell’emancipazione non dovesse più dibattere con il partito del limite, ma farlo fuori una volta per tutte, per schiacciare l’infame sciogliendo la complessità del mondo in uno scontro tra il bene e il male, pur presentandosi come il partito della complessità e della sfumatura.
La filosofia politica adeguatamente compresa ci insegna che il bene comune non si lascia mai definire da una dottrina esclusiva, che avrebbe il monopolio del vero, del giusto e del bene. Non si tratta di proscrivere i dibattiti bioetici a partire da una concezione definitiva dell’essere umano, e neppure di contestare le possibilità emancipatrici associate alle evoluzioni tecnologiche, ma di evitare di sottomettersi a una logica che formula una domanda autorizzando soltanto una risposta. Le invarianti antropologiche su cui poggia la condizione umana non possono essere trattate come dei semplici residui polverosi del mondo di ieri, da spazzare via affinché arrivi finalmente il paradiso sulla terra”.
Di: Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere a cura di Giulio Meotti – Il Foglio
21 Settembre 2020