Luigi Cavanna, oncologo di Piacenza, protagonista sulla rivista americana Time. Viaggia con tamponi, ecografi e tablet. “Nessuno deve più morire solo.”
«Io vado in casa perché il bisogno è di nuovo estremo. Se tutti i malati Covid vengono in ospedale, presto saremo travolti. Li troveremo attaccati all’ossigeno nei ripostigli, a morire soli, come in primavera. Non deve più succedere». Luigi Cavanna, 67 anni, primario di oncoematologia nell’ospedale di Piacenza, arriva in reparto alle 7.30. Fa le biopsie, visita i suoi 22 pazienti e alle 10 è già pronto per il giro quotidiano dei contagiati dal virus. Il magazine Time lo descrive come “il pioniere italiano delle cure domiciliari” contro la pandemia.
Ha cominciato il 9 marzo, subito affiancato dalle squadre speciali Usca della dottoressa Anna Maria Andena. Non hanno più smesso: 330 i suoi interventi fino ad agosto, oltre 3 mila quelli totali nel Piacentino. Meno del 5% gli infetti poi ricoverati: nessuno è morto. Con lui anche oggi c’è Gabriele Cremona, caposala degli infermieri. Nel parcheggio dell’ospedale indossano la tuta protettiva e infilano nella Panda bianca ecografo, palmare, saturimetri, tamponi e medicine. Su un foglietto ci sono nomi e indirizzi dei pazienti, sparsi nelle campagne di tutta la provincia.
Mentre Gabriele guida, il professor Cavanna chiama al telefono le persone che sta per raggiungere, nelle cascine e in montagna. «Non c’è alternativa – dice – i mesi estivi sono stati sprecati. Andiamo incontro al collasso del sistema sanitario. Paghiamo la visione ospedale-centrica, superata da questa strage. La conseguenza è che arriviamo tardi: le terapie intensive scoppiano, i reparti non riescono più a seguire gli altri malati. La sensazione è che una diga fragile stia per crollare».
La prima visita è a Rottofreno, nella casa di Angela, 56 anni, da sabato attaccata alla bombola di ossigeno. I vicini osservano perplessi i sanitari che sulla strada, prima di suonare il campanello, infilano guanti e un’altra tuta usa e getta. All’interno, operano come fossero in reparto. Grazie ad un mini-ecografo attaccato ad un palmare, controllano in tempo reale lo stato della polmonite bilaterale. Dopo la visita, se serve fanno il tampone: poi lasciano un farmaco antivirale e del cortisone, la bombola di ossigeno e il saturimetro per il monitoraggio costante da remoto. «Il Covid – dice Cavanna – non è una patologia acuta. Ci lascia tempo per prevenire la reazione immunitaria che infiamma i polmoni fino alla morte. La sfida è la tempestività: è triste ammetterlo, ma oggi l’assalto dei malati alle terapie intensive è la sconfitta sia della scienza che della politica».
Il suo telefono non smette di suonare. Il numero è pubblico e lui lo lascia a tutti. Chi è vinto da febbre, paura e solitudine, chiama anche di notte e nel fine settimana. «Un oncologo – dice – ha la cultura della presa in carico della persona, dalla prevenzione alla cura palliativa. Il peso psicologico si aggiunge alla sofferenza fisica, allargato alla famiglia, spesso schiacciata dall’assistenza. La medicina porta a porta non è filantropia: se guardiamo la realtà, ormai è un dovere che risponde alla necessità di risposte nuove sul territorio».
Centinaia i contagiati che, grazie alle sei task-force di cure immediate a domicilio, hanno evitato l’ospedale. «Se mi ricoverassero – dice Luigi, 92 anni, pensionato di Borgonovo in Val Tidone, morirei da solo. Ho troppi malanni, da una corsia non uscirei più. A casa posso muovermi, mangio come sempre, resto in compagnia e non smetto di lottare». Accanto a lui c’è la moglie Franca di 89 anni e la figlia Ornella, insegnante di 57. Tutti infettati dal fratello Roberto, assistito in pneumologia. Grazie a social e cellulare, tre volte al giorno inviano al professor Cavanna le immagini con i dati dei saturimetri. La rete di medici di base, unità speciali di continuità assistenziale, farmacisti e piccoli trasportatori, permette il prodigio della cura no stop. «Se diagnosi e terapia arrivano entro 72 ore dai primi sintomi – dice Cavanna – nel 95% dei casi bastano tre pastiglie al giorno e un po’ di ossigeno. Aspettare l’esplosione della carica virale e l’ospedalizzazione, è un errore che in Italia sta costando caro. Noi non siamo dei fenomeni: solo medici che sfruttano la solidarietà che può salvare le nostre comunità».
Tra otto e quindici le visite quotidiane nelle case. Incontrare i famigliari dei positivi offre l’opportunità del tampone a chi non è sintomatico, o a chi si sente guarito. «Pur di non uscire per il test – dice Emanuela, 58 anni, impiegata di Gossolengo – ho rischiato la fine di mio marito Arnaldo, contagiato dal padre. Molti, per paura o per vergogna, rifiutano l’ospedale: qualcuno innesca focolai domestici, qualcuno non ce la fa». Il giro del mattino termina alle 14, quello della sera dopo le 20. Seguono le telefonate di controllo e quelle per gli appuntamenti di domani. «Essere una notizia – dice Cavanna – è triste e mi fa pensare. Ancora non vedo una percezione esatta del pericolo che ci minaccia. A partire dalla politica: ogni rinvio di misure drastiche e nazionali, abbatte le possibilità di sfuggire a un’ecatombe”.
Giampaolo Visetti – La Repubblica
Data di pubblicazione: 3 Novembre 2020