Non lasciamo indietro chi soffre di più le conseguenze psicologiche di misure restrittive e lockdown. L’appello dell’Onu e il patto che serve Uno degli aspetti più trascurati della pandemia da coronavirus è stato e continua a essere la salute mentale e psicosociale della popolazione. Una fascia d’età cui porre particolare attenzione è quella dei bambini e degli adolescenti. In questa prospettiva, la chiusura delle scuole rischia di avere un impatto particolarmente grave sullo stress, l’ansia e i problemi di salute mentale dei ragazzi, che si somma alla scarsa consapevolezza della portata dei problemi di salute mentale tra gli adolescenti.
Eppure tutte le Agenzie internazionali invocano l’inclusione di questi temi nella risposta al Covid-19: per migliorare la qualità della programmazione, le capacità di resilienza delle persone, per ridurre le sofferenze e accelerare la ripresa. Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, nel maggio scorso lanciava un monito agli stati membri perché dessero impulso alle azioni globali per la salute mentale. La sofferenza psicologica associata “al dolore per la perdita dei propri cari… allo shock per la perdita di posti di lavoro… all’isolamento e restrizioni ai movimenti… alle dinamiche familiari difficili… all’incertezza e paura per il futuro” meritava, secondo Guterres, “impegni ambiziosi” in materia di salute mentale.
Di fronte a questa esortazione è stato fin troppo facile richiamare la necessità di rafforzare i servizi di cura, le reti di protezione sociale, il sostegno economico al sistema produttivo. Crediamo tuttavia che – preliminare a queste azioni – vi sia il bisogno di ripensare il paradigma che le sostiene. Quel paradigma di salute mentale che, mutuando dalla medicina il concetto di malattia, ha ridotto la sofferenza psichica a patologia d’organo, ha prodotto infinite diagnosi senza prognosi, ha promosso costose ricerche che non hanno migliorato la qualità di vita delle persone. Un paradigma in funzione del quale migliaia di persone sono state confinate in strutture ospedaliere o residenziali neo-manicomiali con obiettivi terapeutico-riabilitativi scarsi o nulli, che sono presto divenute focolai epidemici. Si è scoperto allora che queste residenze erano luoghi chiusi, separati dalla società e invisibili anche ai piani di protezione dalle pandemie.
Il virus ha segnato profondamente un sistema che, salvo rare eccezioni, ha rivelato tutte le sue criticità. Non è possibile pensare a un rilancio della salute mentale di comunità senza la ridefinizione di quel modello, che già prima della pandemia rappresentava uno dei maggiori elementi di contraddizione nel sistema di sanità pubblica. Quanto più esso è stato tollerato e diffuso, tanto più pandemia e misure anticontagio ne hanno aggravato le conseguenze negative; al contrario, dove c’erano servizi con una forte caratterizzazione comunitaria, un orientamento al territorio, alla domiciliarità e all’inclusione, la risposta all’emergenza e alle restrizioni è stata più sostenibile. La pandemia ha svelato le debolezze di sistema ma al tempo stesso ha mostrato i possibili rimedi. Vediamone alcuni.
La salute mentale, per le sue caratteristiche interdisciplinari e intersettoriali, è oggetto difficile da maneggiare con logiche esclusivamente biomediche: il miglioramento del sistema di cura passa innanzitutto attraverso la consapevolezza che i problemi di salute mentale sono determinati in larga misura dal contesto sociale, economico, e ambientale in cui le persone vivono e che le disuguaglianze sociali sono associate a un aumento del rischio per molti disturbi mentali. Come ricorda l’Oms, “è di cruciale importanza intraprendere azioni per migliorare le condizioni di vita quotidiane, iniziando dal momento della nascita, proseguendo durante la prima infanzia, l’adolescenza, la costruzione della famiglia, l’età lavorativa e infine la vecchiaia. Un’azione lungo tutte queste fasi della vita costituisce un’opportunità sia per migliorare la salute mentale nella popolazione, sia per ridurre il rischio in quei disturbi mentali correlati alle disuguaglianze sociali”.
Una fascia d’età cui porre particolare attenzione è quella dei bambini e degli adolescenti. In questa prospettiva, la chiusura delle scuole rischia di avere un impatto particolarmente grave sullo stress, l’ansia e i problemi di salute mentale dei ragazzi, che si somma alla scarsa consapevolezza della portata dei problemi di salute mentale tra gli adolescenti. L’impatto dannoso delle esperienze infantili avverse e dello stress per la salute fisica e mentale nel corso della vita è ormai evidenza inconfutabile, che dovrebbe orientare le decisioni sulle misure restrittive per arginare la diffusione del virus. Occorre inoltre evitare di “medicalizzare” il disagio e il malessere derivanti dallo stress della pandemia e delle misure adottate per arginarla. Le manifestazioni di protesta contro le misure restrittive vanno considerate diretta espressione di questo disagio e del venir meno degli ordinari meccanismi di adattamento.
Il contributo delle scienze comportamentali e psicosociali sarebbe prezioso nell’analizzare, in campioni rappresentativi della popolazione regolarmente monitorati, le conoscenze esistenti, la fiducia nelle istituzioni e nelle fonti di informazioni, la percezione del rischio, gli atteggiamenti e i comportamenti preventivi. Oggi sappiamo molto di più sull’epidemiologia del coronavirus, ma non abbiamo dati attendibili su come tali conoscenze rafforzino o indeboliscano la capacità di resilienza delle persone. Non va sottovalutato infine il carico emotivo e materiale che lo stress pandemico esercita sulle persone con problemi di salute mentale e sui loro familiari. Questo è vero sia per chi è in carico ai servizi territoriali, oltre 800.000 persone, che per quanti sono collocati in strutture residenziali, circa 30.000 soggetti.
Nel primo caso, la riduzione generalizzata delle attività, soprattutto quelle svolte per favorire e sostenere progetti personalizzati di inclusione sociale, pesa non poco sulla regolarità dei percorsi e l’uso degli strumenti informatici ha solo parzialmente vicariato le attività in presenza. Nel secondo, le persone ospitate in strutture residenziali hanno visto restringersi ancor di più le occasioni di scambio con l’esterno, finanche con i familiari più stretti. Nonostante l’adozione di queste misure, le residenze hanno mostrato un’alta vulnerabilità alla trasmissione del virus, segnalando l’elevato rischio connesso alla concentrazione di persone sofferenti, spesso con numerose comorbidità, in strutture che solo raramente assumono caratteristiche abitative e relazionali di tipo familiare.
Anche per questo, l’ultimo rapporto del relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani delle persone con problemi di salute mentale invita gli stati membri e le altre parti interessate a “ridurre radicalmente l’uso dell’istituzionalizzazione in materia di salute mentale”. Nella prima fase, di lockdown generalizzato, la risposta da parte degli utenti e dei loro familiari è stata sorprendente: i dati disponibili ci indicano che alla riduzione delle attività dei servizi territoriali non ha corrisposto un maggior numero di accessi al pronto soccorso, né di ricoveri ospedalieri, neanche per Tso. Nelle parole di un diretto interessato troviamo la chiave di lettura del fenomeno: “Vede dottore, noi viviamo tutto l’anno in lockdown. Alla distanza della società, purtroppo, siamo abituati”. Crediamo che questa sia la più eloquente descrizione di uno stato di cose che il ritorno della pandemia ci impone di cambiare.
L’applicazione delle prescrizioni preventive può divenire un’importante occasione di promozione della salute e di protagonismo degli utenti e dei loro familiari, in un patto di corresponsabilizzazione che salvaguardi le attività di riabilitazione, socializzazione e inclusione senza compromettere le esigenze di sicurezza. Nella certezza che un approccio basato sui diritti delle persone sia il miglior antidoto a disagi e sofferenze prodotti dalla pandemia.
Fabrizio Starace
Il Foglio
9 Novembre 2020