Chi ha votato Trump l’ha fatto con l’80% per lui e solo il 16% contro Biden; chi ha votato Biden l’ha fatto con il 62% per lui e il 32% contro Trump
La Cnn ha dato degli exit polls particolari, abbinati ad un sondaggio: non chiedeva fuori dei seggi chi avesse votato chi. Chiedeva domande di sostanza, le cui risposte mi hanno colpito. Quale è la preoccupazione più grande? Il 38% ha risposto l’economia (lavoro), il 18% i problemi razziali e solo il 14% il Covid. Ma chiedeva anche se chi votava, stava meglio o peggio di 4 anni fa: il 40% sta meglio e il 20% sta peggio. Alla domanda se avessero votato per il proprio candidato o piuttosto contro l’avversario la risposta è sorprendente, ma comprensibile. Chi ha votato Trump l’ha fatto con l’80% per lui e solo il 16% contro Biden; chi ha votato Biden l’ha fatto con il 62% per lui e il 32% contro Trump.
Sono tre domande e risposte che danno tre indicazioni precise. La prima indipendentemente dalle ideologie (nostre) per gli americani il lavoro e l’economia è davanti alle altre preoccupazioni. La seconda, molti elettori stanno meglio di 4 anni prima. La terza, gli elettori di Trump lo votano perché ci credono, gli elettori di Biden ci credono meno e lo votano contro Trump. Come dire chi vota per qualcosa e chi vota contro qualcuno. Hanno vinto quelli del voto contro.
Dai temi passiamo alle grandi regioni degli Usa. Trump conquista praticamente tutti gli Stati sudisti, la bible belt (la cintura della bibbia), il sud religioso e di colore. Sono suoi 11 Stati su 12. Conquista anche metà degli Stati della rust belt (cintura della ruggine, le fabbriche chiuse) su fino a quelli dei Grandi laghi. Ma qui ha perso tutto il vantaggio che aveva nel 2016. Nonostante ciò i suoi voti sono aumentati in queste regioni tra il 12 e il 15%. In poche righe si è preso la fiducia delle “periferie del mondo” come direbbe Papa Francesco. Ma se si allarga la cerchia si possono includere anche le popolazioni che vivono del lavoro della terra, gli Stati agricoli. In buona sostanza dove ci sono problemi di razzismo, di disoccupazione, di povertà e di precarietà queste persone hanno fiducia in Trump. Non ha certamente perso, ma non è bastato.
Ancora una volta si può dire che Trump ha intercettato il voto del ceto medio, e il ceto medio per la seconda volta gli ha dato fiducia. Diversamente, non si spiegherebbe il risultato col fotofinish e la sconfessione totale dei sondaggi.
Il ceto medio non è una categoria di cittadini, nemmeno negli Usa, astratta e indefinita a cui occorre lisciare il pelo prima delle elezioni, ma è quella categoria insostituibile che tiene assieme il mondo e che per questo le va il massimo rispetto. Il ceto medio ha volti, nomi e cognomi concreti che incontriamo ogni giorno; persone che hanno un identikit comune: dipendenti stipendiati, salariati, piccoli proprietari, artigiani, commercianti, albergatori, agricoltori, imprenditori e casalinghe.
Sono quelli che si alzano ogni mattina per lavorare, con fatica e orgoglio tengono assieme le loro famiglie, pagano fino all’ultimo centesimo tasse e imposte, non ricevono né favori, né sussidi statali, dimenticati dalla politica e dallo Stato, non chiedono aiuti pubblici e non sono clientelari, non si lamentano e ci provano da soli, non manifestano, non sfilano e non hanno lobby. Gli viene chiesto di lavorare, produrre, pagare; crescono e educano i loro figli e quelli di altri, ubbidiscono alle leggi e se sbagliano pagano, subiscono in silenzio i danni dei mercati dopati, subiscono in silenzio le cattive decisioni politiche, hanno paura di cadere e finire tra i poveri, sanno che non saliranno più tra i ricchi. Il ceto medio è da intendere come gruppo di persone, radicato in un posto, che intrecciano rapporti primari e spontanei tra loro. Cioè, persone che scelgono di vivere in un luogo assieme, che decidono liberamente con chi relazionarsi, con chi fare affari, con chi gioire, con chi soffrire, che hanno un senso comune ecc… È l’insieme dei cittadini che con le loro relazioni, il loro lavoro e i loro desideri tengono assieme una comunità e la fanno esistere, vivere e prosperare. Prima ancora di un insieme di cittadini, sono un popolo. Il ceto medio non è né la disponibilità di soldi né di reddito imponibile a definirlo; ma a determinarlo è quel modo di vivere, pensare, agire e di sentirsi vivi in una comunità che non si può abbandonare e che non si vuole lasciare.
Trump nel 2016 ha parlato a questi cittadini, per 4 anni ha tentato di fare qualcosa per loro: 7 milioni di posti di lavoro in più di cui 6.4 nell’economia privata rispetto alla sua entrata in carica, l’indice Dow Jones Industrial è passato da poco più di 17’000 punti del 2017 a sfiorare i 30’000 punti in primavera 2020. È tornato a parlargli in questa campagna e loro lo hanno votato, ma non è bastato. Hanno scelto senza saperlo, di scommettere sulla politica interna cioè iniziare a stare meglio in casa propria, anziché sulla politica estera di poliziotto del mondo e di sregolatore planetario a spese di chi vive negli USA e a costo di vite umane perse in guerre altrui inutili. Hanno vinto i secondi, quelli che vogliono mettere a posto il mondo ma non il vicino di pianerottolo.
L’America la si capisce, più che da studi accademici, leggendo e studiando autori diversi e lontani nello spazio e nel tempo, ma vicini alle vicende attuali come: Steinbeck, Faulkner, Fitzgerald, Roth, Keruak, Capote, autori che descrivono le radici originarie e profonde di cosa oggi vediamo in superficie. Ma anche autori più “tecnici” come Ayn Rand, Russel Kirk, e autori saggisti più giovani che entrano nel vivo del tessuto sociale americano: Rod Dreher, James David Vance, Peter Temin, Charles Taylor. Ma la si capisce anche ascoltando, che ne so, Tom Waits o guardando i quadri di Hopper o i film di Clint Easwood. Tutti autori “umanisti” che entrano nel cervello e nelle budella dell’America profonda, che descrivono vite reali e non schemi ideologici nei quali noi di qua dell’Atlantico siamo abituati a cacciarci dentro le persone con le loro vite. Cito un libro lontanissimo, era il 1995, “Restoring America”, di Newt Gingrich, un tentativo per far ripartire i Repubblicani dopo i successi di Reagan e il declino che ne venne. Newt Gingrich, speaker dei repubblicani, aveva pubblicato nel 1994 con Dick Armey “Contract with America” una sorta di manifesto di riscatto della minoranza repubblicana. Probabilmente l’entourage di Trump è riuscito 20-25 anni dopo a miscelare bene ciò che noi impropriamente definiamo populismo del presidente con molte idee lucide di allora. Idee che però fino a Trump non avevano trovato l’interprete adatto. E forse nemmeno un’America disposta ad accoglierle. Ma non è bastato nemmeno questo.
Chi in questa tornata ha di nuovo scelto Trump ha capito che le domande sono ancora aperte, ma ha anche capito che tra Biden e Trump, è il secondo che era sulla buona via e che sarebbe stato in grado di percorrerla per altri quattro anni per rispondervi. Ma non è bastato. Purtroppo, le risposte non le vedremo da Trump. Restano invece le domande che ha posto, rimangono dure come macigni inamovibili sul cammino dello sfidante che l’ha battuto. Vedremo. Auguri neopresidente, ricucire un Paese strappato con un Parlamento diviso non sarà semplice.
Sergio Morisoli
9 novembre 2020