Covid, il microbiologo Andrea Crisanti: il programma per la distribuzione del vaccino di Arcuri è senza una certificazione della comunità scientifica. La validità del prodotto non può deciderla la politica o un’azienda. «Sa quanti vaccini sono stati ritirati dopo essere entrati in produzione? Perché magari è stato dimostrato che non funzionavano o perché sono comparse delle complicazioni. In questo caso, poi, avendo avuto finanziamenti statali in anticipo, si sono potuti permettere di fare tutto di corsa perché ogni rischio economico ricade su chi ha messo i quattrini. Ma c’è un punto fermo e imprescindibile: un vaccino è tale quando chi l’ha prodotto ha convinto la comunità scientifica, non quando decidono loro».
Qui si è andati di corsa bruciando ogni tappa Professor Andrea Crisanti, davvero non farebbe il vaccino a gennaio?
«Io ho solo detto che per farlo vorrei vedere prima i dati. Vorrei cioè esserne convinto e per esserlo devo leggere una pubblicazione che sia certificata dalla comunità scientifica, la sola garanzia di validità, che in questo momento però non c’è. La validità non la può decidere un’azienda o la politica. E poi si lamentano che la gente è diffidente».
Il commissario Arcuri ha già stabilito una scaletta: 1,7 milioni di italiani potranno essere vaccinati nella seconda metà di gennaio con la somministrazione di 3,4 milioni di dosi. L’Italia ha opzionato 27 milioni di vaccino Pfizer. Entro il terzo trimestre del prossimo anno una parte importante della popolazione avrà il vaccino…
«Ma tutto questo per me non ha senso se non c’è il timbro della scienza e, ripeto, io questo timbro non l’ho ancora visto. Non sono un no-vax ma penso che comportamenti così poco ortodossi nella distribuzione di un prodotto importante possano favorire proprio l’approccio di chi è contrario ai vaccini. Guardi, facciamo così, quando uscirà una pubblicazione scientifica andrò a vaccinarmi e mi faccio pure fotografare».Per quale motivo aziende come Pfizer, Moderna e AstraZeneca, quest’ultima in collaborazione con lo Jenner institute dell’università di Oxford nell’Inghilterra dove lei ha lavorato a lungo, dovrebbero esporsi a un clamoroso rischio di insuccesso?
«Sa quanti vaccini sono stati ritirati dopo essere entrati in produzione? Perché magari è stato dimostrato che non funzionavano o perché sono comparse delle complicazioni. In questo caso, poi, avendo avuto finanziamenti statali in anticipo, si sono potuti permettere di fare tutto di corsa perché ogni rischio economico ricade su chi ha messo i quattrini. Ma c’è un punto fermo e imprescindibile: un vaccino è tale quando chi l’ha prodotto ha convinto la comunità scientifica, non quando decidono loro».
Il vaccino fra due mesi è solo una grande illusione?
«No, non ho detto questo: il vaccino può anche funzionare ma chi lo produce ha l’onere di dimostrarlo e la comunità scientifica ha il dovere di verificarlo».
Lei ha detto che normalmente ci vogliono dai 5 agli 8 anni per produrlo…
«Certo, ma è anche vero che questo è il tempo che impiegano le aziende per fare le varie fasi, la 1, la 2 e la 3, in sequenza. In questo caso si è andati veloci e le tre fasi sono andate in parallelo. Questo significa prendersi dei rischi, perché se c’è un problema nelle fasi 1 e 2 devi tornare indietro per verificare quello che è successo e quello che è successo al momento lo sanno solo i produttori».
Qualcuno potrebbe dire che lei fa il microbiologo e non l’immunologo e certe cose non può saperle…
«Ma questa non è una questione di specializzazione, stiamo parlando di procedure standard che riguardano ogni sperimentazione. Non mi sembra di aver detto nulla di straordinario. Il vaccino dev’essere testato e deve soddisfare tutti i criteri di sicurezza ed efficacia, punto. Le scorciatoie non servono a nessuno. Lo dico perché non vorrei che poi ci si pentisse».
Nel frattempo?
«Nel frattempo bisogna riportare il sistema sotto controllo. Le misure di contenimento sono necessarie per abbassare la curva dei contagi ma in queste settimane bisognerebbe investire su una struttura di sorveglianza che ci consenta di consolidare le misure di restrizione, in modo da essere pronti a contenere l’epidemia quando ci saranno le aperture, ed evitare così una terza ondata».
Andrea Pasqualetto
Corriere della Sera
21 Novembre 2020