“Dobbiamo prepararci per qualcosa che in futuro potrebbe essere molto di più dell’attuale pandemia”. Il messaggio dell’Oms, uscito dalla bocca di Michael Ryan, capo del comparto emergenze dell’agenzia con sede a Ginevra, risuona come un monito sinistro. Neanche il tempo di godere per l’arrivo dei famigerati vaccini anti Covid-19, che all’orizzonte si stagliano imprecisate ombre, pronte a travolgere l’inerme umanità con un’onda d’urto – pare – peggiore di quella generata dal Sars-CoV-2. È una previsione, un consiglio, un’ipotesi – chiamatela un po’ come volete – ma contiene il rischio contro il quale gli esseri umani dovranno combattere nell’imminente futuro: quello della venuta di nuovi virus. Potenzialmente molto contagiosi e più letali del Sars-CoV-2.
Il passato insegna e la storia – come suggerivano già i latini – dovrebbe essere una maestra di vita. Prima del nuovo coronavirus, erano emerse altre epidemie, seppur localizzate in regioni più o meno delimitate: la Sars, la Mers, l’influenza aviaria e via dicendo. Molti di questi virus erano più pericolosi del Sars-CoV-2, avevano un tasso di letalità maggiore (i morti complessivi in rapporto al numero di malati rilevati) ma non hanno avuto lo stesso impatto sul mondo. Al netto di tutte le differenze del caso, prodromi del genere avrebbero dovuto farci capire che, prima o poi, avremmo dovuto fare i conti con una malattia come il Covid-19.
Lo aveva intuito prima di molti altri lo scrittore David Quammen che, nel suo libro Spillover, pubblicato in Italia da Adelphi, aveva analizzato la possibilità che un nuovo virus (ipotesi rinominata “The Next Big One”) potesse sconvolgere l’assetto mondiale. Insomma, appare evidente come i vari governi debbano iniziare a investire ingenti risorse nella scienza, così da prevenire in tempo le prossime emergenze sanitarie.
Gli scherzi della natura
Nel corso di un’intervista rilasciata a Nature, il virologo statunitense Peter Daszak ha parlato in maniera approfondita del Covid-19, facendo capire che cosa potrebbe accadere da qui ai prossimi anni. L’immagine da lui evocata fa letteralmente tremare i polsi: “Stimiamo che ogni giorno qualcuno in Cina o nel sud-est asiatico venga infettato da un nuovo coronavirus di un pipistrello. In questo momento, qualcuno sta camminando e potrebbe sviluppare i primi segni di tosse dal prossimo Covid”.
Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione non governativa senza scopo di lucro che sostiene vari programmi sulla salute globale con sede a New York City, ha le idee chiare. Innanzitutto il Sars-CoV-2 non può essere uscito da un laboratorio (nello specifico dal famigerato laboratorio di Wuhan). Certo è che, se davvero quel virus fosse fuoriuscito per errore da una struttura di ricerca, ci troveremmo in una situazione più rassicurante rispetto all’ipotesi di un’origine naturale.
A detta del virologo, il motivo è semplice: qualora il virus fosse stato generato in laboratorio, non dovremmo convivere con un pericolo incombente. In quel caso, basterebbe, infatti, mettere sotto controllo i lavoratori del laboratorio incriminato per ottenere tutte le informazioni sulla minaccia e sviluppare così cure e vaccini. Spiegazione plausibile, ma che, secondo alcuni, colliderebbe con il passato del signor Daszak il quale, per oltre 15 anni, ha collaborato proprio con l’Istituto di virologia di Wuhan.
Le aree a rischio
Archiviando il discorso laboratorio, prendiamo per buona la prima affermazione di Daszak, quella relativa ai nuovi coronavirus del sud-est asiatico e della Cina. Altra evidenza: le zoonosi partono spesso dai pipistrelli. Il fatto è che nel continente asiatico è presente una variegata diffusione di pipistrelli, veri e propri serbatoi di (corona)virus. Altro problema: questi animali sono sempre più spesso costretti a condividere i propri habitat naturali con gli esseri umani. Con il risultato che le occasioni di contatto si moltiplicano, così come le chance affinché un agente patogeno possa effettuare il salto di specie e scatenare una pandemia.
Prendiamo la città di Wuhan. A causa della sua conformazione, e per alcuni aspetti caratteristici, la megalopoli dello Hubei ospita tutti gli ingredienti per “un’epidemia perfetta”. È il pensiero, questo, di Michael Osterholm, direttore del Center for Infectious Disease Research and Policy dell’Università del Minnesota. Il signor Osterholm ha spiegato al Wall Street Journal che il primo epicentro noto del Covid è “una città densamente popolata, con numerosi mercati di animali vivi dove si mescolano persone, maiali, pipistrelli o altri mammiferi potenzialmente infetti”.
Dal clima agli allevamenti intensivi
Nel sud-est asiatico il clima, con estati calde e afose, inverni miti e tanta umidità, crea la cornice ideale per una delle più pericolose bombe ad orologeria esistenti al mondo. Altri due fattori: l’assidua vicinanza tra animali da allevamento e animali selvatici e la presenza di uccelli migratori provenienti da tutto il mondo. Questi ultimi – spesso assieme ai pipistrelli, come detto serbatoi di virus per eccellenza – provengono letteralmente da ogni continente; entrano in contatto con gli allevamenti intensivi; si creano occasioni per la zoonosi e il gioco – si fa per dire – è fatto.
Interessante, inoltre, citare lo studio intitolato “Lessons from Emergence of A/Goose/Guangdong/1996-Like H5N1 Highly Pathogenic Avian Influenza Viruses and Recent Influenza Surveillance Efforts in Southern China”. Gli autori del paper accendono i riflettori sulla Cina meridionale: “Almeno due delle tre pandemie del secolo scorso, comprese le pandemie influenzali del 1957 e del 1968, provengono da quest’area. Nel 1996 A / goose / Guangdong / 1/1996 (H5N1), il precursore dei virus dell’influenza aviaria H5N1 altamente patogeni attualmente in circolazione (HPAIV) è stato identificato nelle oche allevate nella Cina meridionale. Questi HPAIV H5N1 sono stati diffusi in Asia, Europa e Africa e rappresentano una minaccia continua per la salute umana e animale”.
Federico Giuliani
Il Giornale
6 Gennaio 2021