L’economia in 15 secondi, Varese, Will, Renzi, l’esperienza, Varese, il Marocco, gli amici, i giornali, la community, la fiducia. Conversazione con Imen Boulahrajane
Imen Boulahrajane risponde sempre, subito, dopo due squilli al massimo. Non dice pronto, dice: Ciao! Contenta, invogliante.
L’anno scorso, insieme ad Alessandro Tommasi, dieci anni più di lei che ne ha 26, ha fondato Will, una pagina Instagram di informazione, “uno spazio per i curiosi del mondo, per capire ciò che ci circonda (e fare un figurone a cena)”, che ha avuto subito un enorme successo, e naturalmente ha fatto storcere molti nasi. “Non chiamatelo giornale”, scrisse La Repubblica, sottolineando che la Start Up aveva in squadra un solo giornalista e, per il resto, data analyst. “È un tg per influencer”, dissero altri, più cattivi. Non che le diffidenze dei grandi abbiano mai minimamente influito sulla crescita del progetto, che a due settimane dalla nascita aveva 100mila follower. Ora con le malelingue va meglio, i follower sono 658 mila (il Corriere della Sera ne ha 927mila), gli investitori consolidati, il futuro aperto.
Sulla sua pagina Instagram personale, dove ha 325mila seguaci, Imen ha scritto in bio che passa le giornate a cercare “solo le notizie che meritano di essere raccontate”. Su Twitter, che usa molto di meno – vecchio, pettegolo e trombone com’è diventato – ha un pubblico molto più ristretto, poco più di 10 mila utenti, e una bio diversa: “Ho imparato a dire no”. È nata il 14 ottobre del 1994, “generazione Berlusconi”, e la prima volta che i giornali si sono occupati forsennatamente di lei non è stato quando Forbes l’ha inserita tra gli Under 30 più influenti dell’anno, quando Will ha vinto il Premiolino, quando ha aperto le candidature per farci lavorare dei giovani. E no. È successo quando Dagospia ha fatto sapere che non era laureata: è stato allora che mi sono innamorata di lei, ho pensato che c’era da fidarsi e ho cominciato a guardare le sue stories, dove spiega “l’economia in 15 secondi” ma pure la giornata politica, ha sempre lo smalto rosso o bianco, gli occhi vispi, i magazine di fianco. L’economia è il suo grande amore e ad accenderle la voglia di divulgarla è stato il suo professore di filosofia.
Il suo eroe è Mario Draghi.
Rileggevo in questi giorni una sua frase: chi prende grandi decisioni deve avere capacità di analisi ed esperienza. È una delle cose più importanti per me: agire quando è il momento, saper aspettare di maturare. Quando frequentavo la scuola di Enrico Letta, una volta in classe ci disse: ricordatevi di rendervi indipendenti economicamente e professionalmente, fate in modo che la vostra vita non dipenda dalla politica e, solo allora, provate a entrarci. Uno dei problemi principali dei nostri politici è che sono fuori dal mercato del lavoro e la politica la fanno perché non possono fare altro. Cottarelli, Draghi, Cartabia ci incantano e ci danno fiducia perché alla politica prestano una competenza specifica che hanno maturato altrove.
Allora le piacerebbe quella carriera?
Come civil servant, probabilmente, ma tra molto tempo. A 19 anni ero nella segreteria dei giovani democratici di Varese. Sono stata una sostenitrice di Renzi, ho seguito la Leopolda di persona quasi ogni anno, sono stata vicina all’attivismo e all’associazionismo per anni, anche con una buona dose di idealismo, ma adesso sono meno entusiasta. So per certo che non sono ancora pronta: chi ci governa dev’essere migliore di noi, più esperto, più capace e io non ho ancora maturato né le competenze né le esperienze necessarie. Ci vuole tempo. Non si governa senza una lunga esperienza alle spalle. Luigi Di Maio è una brava persona, per carità, ma come può fare il ministro degli Esteri se ha un trascorso amministrativo e politico così breve?
Pretende lo stesso dai suoi collaboratori di Will? Siete tutti così giovani.
Will è diverso. Non è nemmeno una testata registrata e non vuole esserlo: siamo e saremo una start up. Domani mi piacerebbe che avessimo una rivista per approfondire tutte le cose che, adesso, ci limitiamo a introdurre, a spiegare.
Insomma prima della politica vorrebbe fare l’editoria?
Non mi dispiacerebbe. Amo i giornali, li ho sempre amati.
Ne legge molti?
È la prima cosa che faccio appena sveglia. Prima i quotidiani internazionali, che mi danno un’idea precisa di cosa succede, poi gli italiani, che però spesso trovo un po’ fuorvianti, con tutto quello spazio dedicato al chiacchiericcio, alle minuzie che non hanno a che fare con i bisogni e gli interessi dei lettori: con che tono Conte si è rivolto a Salvini, quale polemica c’è stata su Facebook. Alla sera, poi, c’è il mio momento preferito, quando approfondisco le cose che, nella lettura mattutina, che è sempre veloce, mi sono appuntata.
In suo quotidiano preferito?
Il Financial Times, senza dubbio.
Come mai ama tanto i giornali?
Perché sono curiosa, m’interessano le ragioni profonde delle cose e voglio sempre sapere cosa succede, come va avanti il mondo. Vengo da un piccolo comune in provincia di Varese (non più di 5mila anime) e crescere lì ha voluto dire per me essere la finestra sul mondo: la mia famiglia ha origini marocchine e negli anni Novanta eravamo gli unici in tutto il paese a venire dal nordafrica. Ora è diverso, ma allora eravamo la novità, ci guardavano con interesse o con sospetto e stava a noi spiegarci, raccontarci. L’integrazione è sempre un abbraccio tra chi arriva e chi lo guarda arrivare e fallisce se si sbaglia atteggiamento, da una parte o dall’altra. Io mi resi conto subito di essere una specie di ambasciatrice del nuovo mondo, e che mi era richiesta una consapevolezza e una conoscenza di chi ero assai maggiore rispetto a quella che ci si aspettava dalle altre bambine. Io sono nata in Italia, ma ho un cognome marocchino: mi chiedevano sempre cosa volesse dire, che paese fosse il Marocco, perché vivessi in Italia. E io ero felice di rispondere. Dovermi chiedere chi fossi così presto e imparare a spiegarlo altrettanto presto sono state le mie grandi fortune, il motore della mia curiosità.
È stato difficile crescere?
Per niente. Non ho mai vissuto episodi di discriminazione, sia perché sono stata attenta a istruire un dialogo con chi mi guardava con curiosità, e ho fatto in modo da non lasciare alcuno spazio all’ambiguità, e sia perché in Italia non ci sono i ghetti che ci sono altrove, le banlieu francesi dove mi sento a disagio io stessa e vedo il totale fallimento dello Stato.
Non sarà cresciuta troppo in fretta?
Mi sta dando della giovane vecchia?
No, giuro. Voglio dire che ha un sacco di responsabilità, compiti, ruoli, doveri. E anche che lavora troppo.
Ma io mi diverto tantissimo, non sento alcun peso. Seguire la crisi di governo è come guardare West Wing ma meglio perché è reale, succede davvero. Non credo che esista un’età per essere responsabili e mi secca che l’Italia ci faccia crescere così lentamente. Da bambina mi colpì quando andai per la prima volta all’estero e vidi i miei coetanei che prendevano la metro da soli: io dovevo sempre essere accompagnata da mia madre.
Tra dieci anni cosa farà?
Non lo so, ma di certo non quello che sto facendo adesso, che peraltro non l’ho nemmeno mai immaginato: più che concentrarmi sui piani, che cambiano, tengo fede a una visione, che resta. Mi preparo e studio, da sempre, ma lo faccio per essere pronta a tutto, non per perseguire uno scopo preciso, unico. Quando Will è nato non avevamo un’idea precisa, e io stessa ero in difficoltà a spiegarne l’intento e la novità agli investitori. Cominciare e procedere ci hanno aiutati a farci un quadro più chiaro, che però non è finito, non è statico. Potremmo diventare moltissime altre cose ancora, cose che adesso nemmeno contempliamo. E anche nel modo di lavorare cerchiamo di rinnovarci sempre: i format sono sempre diversi. Prendo a esempio la moda, che propone nuovi trend perché sa che le persone hanno bisogno della novità, di avere l’impressione di poter ricominciare.
Quanto contano le persone nel suo lavoro?
Tutto. Prima di fondare Will, ho passato un anno e mezzo a studiare, indagare per capire cosa interessa le persone. L’ho fatto soprattutto parlando con la mia community su Instagram. E lo faccio ancora: il contatto diretto è fondamentale. Io provo a rispondere a tutti, nei limiti del possibile: a chi mi chiede un approfondimento, un punto di vista, ma pure a chi semplicemente mi ringrazia o mi fa un complimento. Non voglio che nessuno si senta come mi sono sentita io le volte che mi sono impegnata per mandare una mail, con le mani che mi tremavano, magari per propormi per un lavoro o per qualsiasi altra cosa e non ho ricevuto risposta: è stato terribilmente avvilente e demotivante.
Le dicono mai che spaventa gli uomini?
Continuamente. In Marocco ci sono ancora donne che non parlano senza prima aver ottenuto il permesso degli uomini, ma in Italia ci sono molte donne che, anche se possono, non parlano, perché sono bloccate dalla soggezione. Mi è capitato di recente in una riunione con due startupper, un maschio e una femmina: mi rivolgevo a entrambi, ma mi rispondeva soltanto lui. Le donne non vengono educate alla mortificazione o all’inibizione di sé, ma di certo nessuno le sprona al rischio, come invece succede agli uomini. Una cosa come quella che ha fatto Renzi è perfettamente mascolina: credo così tanto in me che provo a far saltare un governo. Una donna non lo avrebbe fatto. Leggo continuamente statistiche che dicono che se una donna non possiede tutti i requisiti richiesti da un lavoro, non prova nemmeno a candidarsi: un uomo lo fa anche se ne ha 4 su 10. Hanno ancora molto successo le ragazze che se ne stanno buone e composte, mentre si diffida di quelle che si buttano nel fango.
Lei aveva previsto che Renzi avrebbe “ritirato le ministre.” Si è giocata una Coca Cola.
Non era difficile. Mi è dispiaciuto leggere le accuse di sessismo che gli hanno indirizzato in quel momento. Renzi si sarebbe comportato allo stesso modo anche se di fianco a lui ci fosse stato Scalfarotto. Sono stata una sua grande fan, ho collaborato con lui, ero tra i cento ragazzi che sono partiti con lui e Martina per andare a Bruxelles a chiudere la campagna referendaria e mi creda: non discrimina le donne. Il suo problema è un altro: pensa di essere il migliore, non è in grado di dar voce ai suoi, schiaccia il dissenso, mal sopporta le critiche, svilisce chiunque gli si metta di fianco, facendolo scomparire. È l’opposto di Berlusconi, che da buon imprenditore conosce l’importanza della squadra, sa come valorizzarne i membri e sa anche che, a un certo punto, bisogna lasciarli lavorare in pace, mandarli avanti da soli. Io mi sono sfilata quando ho capito che il seguito di giovani a Renzi serviva per fare delle belle foto, e non per ascoltarne le istanze. Mi ero sentita piuttosto mortificata.
Non mi dà l’impressione di avvilirsi facilmente.
Quale ventenne lo fa? La ragione per cui i giovani sono così assenti dalla politica è semplice: nessuno li coinvolge. Guardi Greta: non ha fatto niente di speciale, si è semplicemente rivolta a un pubblico al quale nessun politico pensa mai e ha avuto un enorme successo, una risposta immediata. Questo ho fatto anche io: mi sono rivolta a dei ragazzi ai quali nessuno si preoccupa di fornire dei contenuti. E la risposta è stata sorprendente. Dicono tutti che viviamo in una società individualista e invece io noto sempre che le persone, soprattutto i ragazzi, non aspettano che creare comunità, non desiderano altro che venga offerto loro uno spazio.
Come selezionate le notizie a Will?
C’è una riunione ogni lunedì per decidere cosa approfondire durante la settimana, chi intervistare, con quale formato procedere. Cerchiamo di stare sull’attualità, naturalmente, ma pure di evitare il chiacchiericcio, le cose che non contano. Vogliamo fornire dei contenuti interessanti, non superflui. I retroscena e le opinioni non ci interessano. Da una parte vogliamo fornire un gancio, accendere una luce, servire uno snack che faccia venire fame, e dall’altra vogliamo dare informazioni precise che diano un quadro di cosa succede, ma che siano anche uno strumento per interpretare e capire il mondo e il tempo che viviamo. Questa credo che sia la missione della divulgazione: dare dei mezzi affinché ciascuno elabori la propria visione. Per questo non ci occupiamo delle boutade di Salvini. Noi abbiamo un seguito piuttosto significativo ma non abbiamo mai seguito il flusso, proposto fatti che sapevamo che avrebbero facilmente attirato gli utenti. Per parte mia, sono fermamente convinta che i giornalisti abbiano un ruolo nobile e fondamentale: scegliere a cosa dare importanza e, naturalmente, raccontare al meglio, rendendosi accessibili e allettanti. La volta in cui ho preso più follower in meno tempo è stata quando ho raccontato la Brexit come fosse un drama. Si deve dare spessore ad argomenti interessanti, avendo fiducia nel fatto che il pubblico vuole la qualità.
Non ha mai paura di sbagliare, di dare dati scorretti, di prendere una cantonata?
Eccome. Proprio per questo ci affidiamo solamente a esperti. E poi, prima di pubblicare un contenuto, prevediamo sempre più di un passaggio di revisione.
Longanesi diceva che il giornalista spiega benissimo ciò che non sa.
È proprio quello che evitiamo: su un tema specifico, chiamiamo a parlare chi se ne occupa da sempre.
Fuori dal lavoro, qual è la cosa più importante per lei?
Gli amici. Ma tutti ci scegliamo amici a nostra immagine e somiglianza, quindi io sto sempre insieme a persone che, come me, non distinguono troppo tra vita privata e lavoro. E così capita che, durante un pranzo, sviluppiamo un’idea e poi ci diamo da fare. Ci viene naturale, non è una forzatura, non si tratta di essere workaholic. Anzi. Io poi amo godermi le cose lentamente e anche perdere tempo, fare sciocchezze. Mi piace mettere insieme le persone, unirle, fare da collante per nuove relazioni, nuove intese.
Rocco Casalino una volta ha condiviso un ritratto che Will gli aveva fatto. Contenti?
Non ci citò. Ma ci scrisse per lasciarci il suo numero. Era il 3 maggio, il giorno prima della riapertura dopo il lockdown. Rimasi di sasso, altro che contenta.
Perché vi occupate così poco di cultura su Will?
Perché non abbiamo ancora trovato il modo migliore per farlo, ma sarebbe molto bello. Potrebbe essere uno dei progetti utili nel futuro.
Me ne dice altri?
Certo che no. Domani potrebbero cambiare.
Di: Simonetta Sciandivasci
Il Foglio
17 Gennaio 2021