PROVITA&FAMIGLIA – Ora le coppie Lgbt intaccano anche la pensione di reversibilità per i figli

By 29 Gennaio 2021Gender

La pensione di reversibilità, in Italia, consiste nella quota parte della pensione complessiva che spetta ad uno dei due coniugi al sopraggiungere della morte dell’altro. Così pure Wikipedia, la popolarissima «enciclopedia libera» – insospettabile di simpatie conservatrici -, definisce tale istituto. Una definizione che toccherà purtroppo rivedere in modo pesante alla luce degli ultimi sviluppi giurisprudenziali che, nei giorni scorsi – con la sentenza numero 803 del 2020, emanata dalla Corte d’Appello di Milano – hanno visto l’Inps condannata a pagare ad un figlio l’assegno di reversibilità dopo la morte del genitore non biologico, il «secondo papà».

Raccontato nei dettagli dal giornale Repubblica, si tratta del primo caso del genere in Italia. Manco a dirlo, il tutto è presentato come l’ennesimo passettino in avanti sul fronte dei diritti civili. In realtà, purtroppo, è vero l’opposto. Infatti tale condanna all’Inps presenta almeno due profili di criticità, uno strettamente connesso all’altro. Il primo, già accennato, riguarda l’estensione di un diritto del coniuge – e quindi di una figura interna alla famiglia naturale – ad un contesto affettivo che vede «due papà». Già questo, oggettivamente, non è poco, dal momento che rappresenta un indiscutibile passo in avanti verso l’iniqua parificazione tra l’unione familiare e quella composta da persone dello stesso sesso, e cioè tra situazioni già biologicamente oltre che eticamente ben diverse.

In secondo luogo, va sottolineato come Luca, il figlio destinatario della pensione di reversibilità del defunto «secondo papà», è nato nel 2010 negli Stati Uniti a seguito di procedura di utero in affitto, pratica che Repubblica ci tiene ad edulcorare presentandola come «gestazione di supporto». Questo significa che il pronunciamento della magistratura milanese, nei fatti, concorre ad un indiretto riconoscimento non solo delle coppie gay come famiglia, ma anche di una pratica umiliante la dignità femminile (oltre che quella del concepito) come, appunto, l’utero in affitto. Insomma, apparentemente di materia previdenziale, questa sentenza della Corte d’Appello di Milano è impregnata di profili ben più generali e purtroppo drammatici.

Naturalmente, ci sarà sempre qualche bravo giurista pronto a spiegarci che sarebbe stato crudele escludere il giovane Luca dalla pensione di reversibilità paterna, che i suoi «due papà» l’hanno fatto mettere al mondo per amore perché si volevano tanto bene, eccetera. Il ritornello, con tutto il rispetto, ce l’abbiamo presente e siamo sicuri che purtroppo non mancherà – in forza più dell’emotività che del raziocinio – di convincere più di qualcuno. I fatti, tuttavia, dicono ben altro. E testimoniano un ennesimo, pesante smantellamento dell’istituto familiare.

Uno smantellamento che, se sarebbe già grave di suo, lo è ancor di più in un contesto culturale come quello odierno, che vede da un lato il relativismo etico allignare ovunque, dall’altro un inverno demografico rigidissimo, con una denatalità che ogni anno che passa flagella in modo sempre più letale il nostro Paese e, a ben vedere, l’Europa intera.

Insomma, se tale svolta giurisprudenziale sarebbe, lo ripetiamo, stata grave anche in contesti più felici, in quello odierno ha il sapore dell’ennesima pugnalata al cuore della «cellula fondamentale della società». Cosa allarmante dato che non è, tale cellula, un residuo del passato o una variante vintage di tanti possibili equilibri affettivi, no: costituisce l’asse portante di un sistema sociale che regge oppure collassa, come sta facendo ora. Speriamo solo che nei tribunali come nei palazzi istituzionali ci si decida ad aprire gli occhi su questa situazione drammatica e che, quando lo si farà, non sia troppo tardi per sanarla.

29/01/2021

Giuliano Guzzo

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