Chi pensa di azzerare il virus ignora l’evoluzionismo darwiniano. E anche qualche principio economico
Le “varianti” del Covid-19 monopolizzano l’attenzione della stampa. Il parere prevalente è che, applicando rigidamente il principio di precauzione che insegue il miraggio di uno scenario a rischio zero, la circolazione delle varianti debba essere evitata a ogni costo. Per farlo, l’unica possibilità sarebbe un nuovo lockdown allo scopo di eradicare e non più solo di mitigare l’epidemia. Il povero Charles Darwin, celebrato ogni anno dalla scienza mondiale proprio in questi giorni (12 febbraio) se potesse farlo, si rivolterebbe nella tomba. Bisogna ignorare del tutto, ma del tutto proprio, come funziona l’evoluzione per credere che la strategia “zero Covid” abbia un senso razionale e sia realizzabile. A meno di trovarsi su un’isola, con una popolazione rarefatta e chiudendo o controllando rigidamente le frontiere. Una quindicina di paesi sono riusciti a evitare il Covid-19 e tredici sono isolotti del Pacifico.
E’ sufficiente scorrere l’elenco di stati per numero di casi di Covid-19 per accorgersi che agli ultimi posti sono quasi tutte isole. E’ evidente che se in presenza di un’infezione si tengono le persone in condizione di non incontrarsi le une con le altre l’infezione si esaurisce. Ma le nostre non sono comunità umane eremitiche isolate, che possono chiudersi al mondo: “zero Covid” non è, purtroppo, un modo per chiudere con l’epidemia. I costi economici, sociali e psicologici saranno cospicui, stante che il virus non può sparire e continuerà circolare sotto traccia, anche nella forma di varianti. Che alla strategia dell’eradicazione – della malattia o del virus? – credano persone che non hanno che vaghi ricordi delle lezioni di Biologia al liceo è comprensibile, ma che la difendano dei microbiologi, virologi, epidemiologi, etc. è preoccupante. In tutta la storia umana, abbiamo eradicato localmente alcune infezioni (per esempio la malaria) e solo vaiolo e peste bovina globalmente. Il governo Draghi nasce nel solco “europeista” e dovrà fare fronte alle aspettative suscitate dai fondi di Next Generation EU. Ma rispetto all’emergenza sanitaria non è ben chiara quale sarà la linea, al netto della conferma del ministro che l’ha sin qui gestita. Come si confronteranno i partiti che nella maggioranza sono appena entrati, con posizioni “zero Covid” come quelle espresse pubblicamente da Walter Ricciardi, prima ancora che il nuovo esecutivo avesse il tempo materiale di definire una propria linea?
La sorpresa generale per il manifestarsi delle varianti ci dice quanto vaga sia la comprensione del fenomeno epidemico e l’idea di combatterle attraverso lockdown più lunghi e rigorosi è un ulteriore conferma che i centosessant’anni che ci separano dall’opera di Charles Darwin sono passati invano. Accorgersi che il virus muta significa scoprire un fatto di natura, come dire che la Terra gira intorno al Sole. Tutte le forme biologiche mutano, i virus di più. Lo si sapeva il giorno in cui ci siamo accorti che circolava. Le “varianti” vengono presentate nel dibattito con un aggettivo nazionale, brasiliana, inglese, come fossero carri armati colorati di un Risiko sanitario. Le caratteristiche in termini di letalità e contagiosità vengono descritte quasi si trattasse di scelte strategiche di un nemico che, per usare la più usurata delle metafore di questi mesi, ci ha dichiarato guerra. Non è così. Le varianti non combattono per chicchessia. La virologia darwiniana, per l’appunto, insegna che le mutazioni avvengono spontaneamente, senza alcuno scopo e a causa di errori nei meccanismi di replicazione del virus, innescando la selezione naturale sulla base del vantaggio riproduttivo e quindi in funzione della capacità di causare malattia e di trasmettersi che conferiscono al virus. Capita casualmente che una mutazione si riveli “vantaggiosa” localmente e così si sviluppi una popolazione che via via si diversifica: una variante.
Ciò che è vantaggioso e ciò che non lo è dipende dalle condizioni ambientali, all’interno dell’ospite (in particolare l’immunità) e quelle fisiche esterne. Questo vale per tutti i virus animali, quindi anche per il Covid-19, che muta molto meno degli altri virus a Rna e in particolare di quello dell’influenza. La tesi di un nuovo lockdown per arrivare ad “azzerare” la malattia Covid non tiene conto di come il virus che la causa non smetta di esistere, e neppure di mutare, se se ne circoscrive la circolazione. L’eradicamento di un patogeno solo attraverso interventi non farmacologici (perché al momento le vaccinazioni richiedono tempo) sarebbe una prima volta assoluta nella storia e questa prima volta assoluta è tanto più improbabile dal momento che il nostro è il mondo più interconnesso di sempre. Se anche tale strategia fosse astrattamente auspicabile, non è possibile che il decisore politico non ne consideri il costo in termine di libertà di movimento delle persone. Perché i lockdown, di cui ormai parliamo quotidianamente con la stessa serenità con cui consiglieremmo a un amico di prendere un’aspirina contro il mal di testa, rappresentano una mutilazione della libertà delle persone. E questa mutilazione ha dei costi: di relazioni economiche e personali che non si stringono, di lingue straniere che gli studenti non imparano nei consueti periodi all’estero, di scambi fra laboratori di ricerca che si rallentano, eccetera. “Zero Covid” e ripresa economica sono inconciliabili.
Sarebbe importante che qualcuno, nella maggioranza, facesse emergere questo punto di vista. Se la scommessa del governo Draghi è, per la Lega, quella del riavvicinamento ai ceti imprenditoriali, probabilmente tocca al partito di Matteo Salvini, come in qualche modo ha già fatto reagendo all’uscita di Ricciardi. Ma sarà in grado di tenere il punto, cercando di interpretare le evidenze e provando a delineare un’ipotesi di gestione dell’epidemia, e non semplicemente un’irritazione? Questo significa provare a usare regole e non divieti (come hanno scritto Natale D’Amico e Giovanni Guzzetta sul Dubbio) per orientare i comportamenti delle persone. E significa anche sottoporre le politiche di contrasto all’epidemia a un’analisi che consideri i benefici sanitari di breve periodo attesi, ma anche i costi sanitari, psicologici ed economici di medio periodo.
Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi
Il Foglio
16 Febbraio 2021