Li conosci solo perché sono morti. Li conosci dopo, gli uomini come Luca Attanasio, e solo perché li hanno uccisi. Come se fosse la morte a farne degli eroi, ed è questo l’errore più grande: gli uomini e le donne come il giovane ambasciatore italiano ucciso in un agguato in Congo non devono essere ammirati per quella morte giunta in modo profondamente ingiusto, ma per la profonda giustizia con cui sono vissuti.
È questo il filo che unisce tante vite spezzate di italiani che noi, gente comune, non sapevamo che fossero al mondo, ma che il mondo, quello poverissimo, conosceva bene da tempo. Medici, missionari, ambasciatori, militari in missione di pace, un esercito di uomini e donne ‘per bene’, persone convinte che l’unica forma di eroismo accettabile è compiere tutti i giorni il proprio dovere.
Andava anche oltre il proprio dovere, Luca Attanasio, che del suo ruolo di ambasciatore (in uno dei Paesi più tribolati al mondo) sentiva soprattutto la responsabilità di portare sviluppo e cooperazione nel nome dell’Italia: fare il diplomatico a Kinshasa, non a Parigi o a Roma, significa incontrare tutti i giorni la miseria e l’ingiustizia, che Attanasio non guardava da lontano, e viveva come propria missione.
Non per filantropia, ma per serietà, in coerenza con il suo mestiere: laureato con lode in Economia aziendale alla Bocconi di Milano, rappresentava in pieno l’idea moderna di ambasciatore, un manager la cui ‘azienda’ da far fruttare è quell’umanità a lui affidata. Così, fuori ‘orario di lavoro’, con la moglie musulmana Zakia Seddiki, madre delle sue tre bambine, aveva fondato la ong ‘Mama Sofia’ per dare un destino migliore a 14mila bambini di strada in Congo. Con i fondi messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana stavano per costruire una nuova casa per loro. «Ridisegniamo il mondo», era il sogno per Luca e Zakia.
Proprio come per Giuseppe Coletta, brigadiere dei Carabinieri ucciso il 12 novembre del 2003 a Nasiriyah insieme ad altri diciotto italiani e a nove civili iracheni. Anche Coletta, diventato famoso suo malgrado a causa della strage più sanguinosa di militari italiani dal dopoguerra, smontato dal lavoro portava cibo e farmaci alle popolazioni nomadi del deserto. «Qui i neonati muoiono perché manca tutto, persino la soluzione fisiologica e una incubatrice», scriveva dal pediatrico di Nasiriyah alla moglie Margherita, con la quale organizzava l’invio degli aiuti per migliaia di persone. Da anni in missione di pace nei vari Paesi dilaniati dalle guerre, ovunque è ritratto in mezzo a bambini con cui fa il girotondo tra le macerie create dai grandi.
O come Annalena Tonelli, uccisa in Somalia un mese prima di Coletta. «I senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo ma grandemente agli occhi di Dio, hanno bisogno di noi, noi dobbiamo essere con loro e non importa se la nostra azione è come una goccia nell’oceano», scrisse Annalena prima di soccombere sotto i colpi di un commando islamista che le tese un agguato al suo ritorno dagli ammalati che aveva servito per trent’anni. Sconosciuta ai più, divenuta famosa quando il suo omicidio ci costrinse a sapere, lasciò scritto ciò che si aspettava da noi: «Non parlate di me, che non avrebbe senso, ma ora tutti insieme incominciamo a servire il Signore, perché fino ad ora ben poco noi abbiamo fatto».
E ancora torna in mente Carlo Urbani, medico italiano, oggi di estrema attualità: non saltò su una mina né fu mitragliato, ma offrì la sua vita per salvare il pianeta dalla incipiente pandemia. Era il 2003 e allora non immaginavamo da quale calvario ci avesse preservati, eppure tutto il mondo si commosse per quel medico e la sua corsa contro il tempo per fermare il coronavirus della Sars. «Non sapremo mai quanti milioni di persone nel mondo ha salvato – disse di lui l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan – e non lo sapremo proprio perché grazie a lui sono vive».
Anche Urbani in missione oltre il suo ruolo: inviato dall’Oms come coordinatore delle politiche sanitarie del Sud-Est asiatico, individuò il virus e, anziché coinvolgere (come da prassi) i suoi infettivologi, scese personalmente in trincea e fermò il contagio. «Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro», aveva scritto partendo dall’Italia e portando la moglie Giuliana e i loro tre bambini a vivere nelle lande più povere dell’estremo Oriente, convinto com’era che i sogni si fanno a occhi aperti, non quando si dorme, e soprattutto si realizzano. Attanasio, Coletta, Tonelli, Urbani, uomini e donne umili, cresciuti in oratorio, legati ognuno a un parroco che nei pomeriggi della loro infanzia ha instillato, tra merende e palloni, il germe dell’amore per gli altri.
«Da ragazzino insieme agli amici Luca fondò il ’Gruppo Aurora’ per andare a trovare gli anziani malati della comunità – ricorda oggi don Angelo, in Brianza –, poi fondò un’associazione che portava i ragazzi disabili in vacanza», proprio come Urbani nelle Marche e Coletta in Campania. Coraggiosi, ma non temerari, consapevoli dei rischi ma senza sfidare la sorte, erano prudenti proprio perché esperti. «Quella dell’ambasciatore è una missione a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio», disse Luca Attanasio il 12 novembre scorso a Salerno, ricevendo proprio il premio internazionale ‘Nasiriyah per la pace’.
L’esempio… «Se scappo io che faccio il medico, chi resterà a combattere?», disse Urbani allo scoppio dell’epidemia che non divenne pandemia. Già nella Cambogia massacrata dai Khmer Rossi era riuscito, solo con la sua presenza, a far rientrare negli ospedali i medici fuggiti. «Il mio bambino è morto di leucemia e per lui non posso fare più nulla. Posso però salvare tanti figli altrui», spiegò Coletta partendo per la sua ultima missione di pace. Per Vittorio Iacovacci, il giovane Carabiniere ucciso in Congo insieme ad Attanasio, era anche la prima. Ogni buon seme morendo dà un germoglio. Margherita Coletta alla morte ha risposto con la vita, inviando al pediatrico di Nasiriyah quella incubatrice che mancava. Certamente a Kinshasa molte vite in futuro saranno salve nel nome di Luca e di Vittorio, il suo Carabiniere.
Lucia Bellaspiga
24 febbraio 2021
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/ecco-chi-semina