Accelerare sui vaccini, telecamere anti-assembramento nei ristoranti e 4 regole del “modello inglese”: così si può evitare il lockdown e riaprire l’Italia. Intervista a Girolamo Sirchia.
Il primo decreto anti-Covid del governo Draghi, approvato il 22 febbraio, ricalca per filo e per segno i Dpcm del Conte-2? E lo sarà anche il Dpcm atteso il 5 marzo? Leggendo alcune prime pagine dei quotidiani italiani, sembra proprio così: nessuna apertura nelle zone gialle, anzi regole più severe in quelle rosse, facendo presagire addirittura un lockdown di fatto che restringe le libertà dei cittadini. Appunto, sembra. In realtà, oltre a una evidentissima novità di metodo (scelte condivise con le Regioni, senza sorprese dell’ultimo minuto), attorno alle decisioni del nuovo presidente del Consiglio si cominciano a cogliere, in filigrana, i germogli di una “svolta”, che piano piano esce da dietro le quinte e conquista i riflettori della scena.
È diverso il copione che il regista vuole consegnare agli attori, non più incentrato sull’emergenza continua, ma sull’accelerazione della campagna di vaccinazione. Non a caso Draghi ha parlato con la Merkel per disegnare un nuovo piano vaccinale europeo e non a caso Draghi ha incontrato Salvini, il leader politico più “aperturista”. “Ciò che conta è innanzitutto avere i vaccini, subito, ad ogni costo, e somministrarli velocemente” conferma Girolamo Sirchia, ex ministro della Sanità, che intravede “spazi per soluzioni alternative”. E aggiunge: “A quel punto, tutto il resto, lockdown compresi, diventa irrilevante, perché si aprono scenari aperturisti che oggi non abbiamo. Finora, tra zone gialle, arancioni e verdi, tra continue aperture e chiusure, in un caotico rincorrere l’epidemia, c’è stata solo molta confusione, senza una visione chiara”.
Lunedì la telefonata con Angela Merkel in vista del Consiglio Ue di domani che dovrebbe licenziare la nuova campagna di vaccinazione europea e ieri l’incontro con Salvini: “Mi ha chiamato Draghi. Abbiano parlato di riaperture” ha detto il leader della Lega. È in vista un cambio di passo nella strategia anti-Covid?
È possibile, ci sono degli spazi per soluzioni alternative, perché proprio Salvini ha posto la questione che bisogna finirla di far fallire le imprese, gli alberghi, i ristoranti. Mi sembra una buona intenzione: sforzarsi di fare il meglio e non il peggio. Finora abbiamo seguito la strategia delle zone colorate – gialla, arancione, rossa -, ma questa soluzione in Gran Bretagna viene sconsigliata dal Sage (Scientific Advisory Group for Emergencies), il gruppo di consulenti sanitari che affianca il governo inglese nelle misure anti-Covid, perché non funziona e crea dei problemi.
Secondo alcune indiscrezioni, l’idea sarebbe quella di varare lockdown molto severi, limitati nel tempo e ben mirati in cambio di una massiccia e veloce vaccinazione di massa. E’ un mix che può funzionare, anche sul fronte della tenuta psicologica delle persone?
Il punto è proprio questo: prima bisogna accelerare la campagna vaccinale, poi viene tutto il resto. Ma se i vaccini non ci sono, tutto rimane sulla carta. Chiaro che più gente viene vaccinata e più lo si fa in fretta – come mostra proprio il modello inglese, che sta vedendo un drastico calo di ospedalizzazioni e decessi -, più aperturista e meno severa può essere la strategia. Può darsi addirittura che non servano più i lockdown. E’ quello che sta avvenendo anche in Israele. Ma i vaccini, adesso, ci sono?
Merkel e Draghi sono pronti a impegnarsi in prima persona per aumentarne l’approvvigionamento…
Il problema oggi è trovare i vaccini e metterli immediatamente a disposizione dei vaccinatori. Bisogna avere i soldi in mano: quando i soldi sono interessanti, i vaccini saltano fuori. E’ la strategia che hanno seguito Israele, Germania, Stati Uniti…
Intanto, nel suo primo decreto legge anti-Covid, Draghi ha già segnato una discontinuità di metodo: le misure sono state caldeggiate dalle Regioni e condivise con i governatori: è una modalità che può portare a risultati più efficaci?
Sicuramente, per troppo tempo abbiamo assistito a uno spettacolo orribile: lo Stato contro le Regioni, le Regioni contro lo Stato e contro l’Europa… Spero che si sia aperta una nuova strada e spero che si metta anche mano al Titolo V della Costituzione per arrivare a una gestione comune della sanità, senza litigi e con regole chiare.
Il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha dichiarato: “Meglio dare un po’ di libertà controllata che regole rigide che vengono violate senza che nessuno intervenga”, cioè molto meglio 4 persone al ristorante la sera che 24 amici in casa. È possibile “un ritorno alla vita” pur con tutte le cautele del caso?
Per i ristoranti ci sono vari modi utilizzabili per evitare le chiusure improvvise, indiscriminate e prolungate. Per esempio, ricorrendo alla stessa strategia che ho utilizzato quando ho deciso di vietare il fumo nei locali pubblici: pattuglie di Nas in giro a controllare e sanzionare i comportamenti illeciti. Bastava installare all’interno dei locali, a spese dei titolari, delle telecamere, responsabilizzandoli: si permetteva loro di lavorare nel rispetto delle regole. I Nas, poi, prelevando a campione i filmati, avrebbero potuto verificare le eventuali irregolarità in fatto di assembramenti non consentiti e comminare le multe. Sempre meglio che decidere le chiusure generalizzate, che hanno portato troppi esercizi al fallimento.
Draghi non solo ha istituito un “gabinetto di guerra anti-Covid”, da lui stesso presieduto e dove è presente un rappresentante per ciascuno dei partiti che sostengono il governo, ma sembra anche intenzionato a ridimensionare il ruolo del Cts. Si può parlare di governance più collegiale e snella?
Parlerei più di governance personale: Draghi è abituato a decidere, non si può perdere tempo a negoziare, altrimenti le cose non vanno avanti. Ma se si hanno le idee chiare su quel che va fatto, è inutile passare attraverso diversi organismi. E’ un accentramento che va benissimo, perché nelle emergenze la filiera di comando deve essere cortissima.
Dal primo incontro del “gabinetto di guerra anti-Covid” è nata l’idea di convocare i produttori farmaceutici italiani, che domani incontreranno il ministro del Mise, Giancarlo Giorgetti, per verificare la possibilità di produrre i vaccini su licenza in Italia. Non è una cosa facilmente né velocemente fattibile, ma quanto è importante partecipare direttamente alla produzione dei vaccini?
È molto buona l’idea di coinvolgere le aziende nazionali perché lavorino per conto dei produttori di vaccini. Abbiamo il potenziale, resta però il nodo del tempo: nell’immediato non è una strada utile per trovare i vaccini di cui abbiamo bisogno.
È vero, si parla di non meno di 4-6 mesi per essere pronti, ma è altrettanto vero che così saremmo attrezzati nel caso la convivenza con il Covid ci costringesse a nuove vaccinazioni negli anni, non crede?
Certo, in chiave preventiva sarebbe una spesa ben fatta.
È stato siglato l’accordo Stato-Regioni per coinvolgere i medici di base nella campagna vaccinale. Che ne pensa?
È giusto. I medici di base avranno un bel lavoro da fare: il vaccino arriva a basse temperature, va scongelato, diluito, messo in siringa e va iniettato entro certi limiti per non sprecare le dosi. È una soluzione valida non certo per le grandi città, dove è più logico andare a vaccinarsi nei grandi centri, ma per i paesi e le aree interne. Anche i farmacisti andrebbero coinvolti.
Sul fronte vaccini, è notizia di questi giorni che sia il siero di Pfizer che quello di AstraZeneca sono efficaci già con la prima dose. Nel caso di AstraZeneca, poi, è possibile posticiparne la seconda anche tre mesi dopo, il che può favorire una più ampia copertura vaccinale senza dover prevedere scorte per il richiamo. Farebbe bene il governo ad azionare questa “leva”?
Senza dubbio. Per prima cosa chiederei agli inglesi di far vedere i loro dati: che cosa avete fatto e quali risultati avete ottenuto? Se dilazionare la seconda dose a tre mesi, funziona e i vaccinati reagiscono meglio alla malattia dei non vaccinati perché già immuni, comincerei da lì, avendo i numeri e le prove. Senza dimostrazioni scientifiche, ogni strategia diventa debole.
Giusto guardare al modello inglese? O varrebbe il caso di copiare anche ciò che hanno fatto nei paesi asiatici?
Quando c’era la Sars sono andato in America per farmi spiegare come funzionava l’Ecdc, sono rientrato e l’ho messo in piedi in Italia. Nella mia vita ho copiato dai più bravi, e non è una diminutio. Vedere e capire è sempre utile. Quanto ai paesi asiatici, avranno sicuramente fatto bene, ma bisogna stare attenti prima di applicare le loro soluzioni da noi: hanno una mentalità molto diversa e poca trasparenza.
Proprio in Gran Bretagna il premier Boris Johnson ha annunciato un “cauto” piano graduale in quattro fasi per l’uscita del paese dal lockdown: riapertura delle scuole l’8 marzo; qualche limitatissimo allentamento delle restrizioni sociali fra l’8 e il 29 marzo; alleggerimenti più estesi il 12 aprile e poi il 17 maggio; infine, superamento generale delle misure il 21 giugno. Il tutto, ovviamente, seguendo sempre con la massima attenzione l’evoluzione della pandemia, la diffusione delle varianti e il numero di ricoverati e decessi. È un piano replicabile anche in Italia?
Più che sulle misure e sulle tempistiche, mi atterrei a quanto ha affermato con evidenza scientifica il Sage: scuole superiori e università vanno chiuse, perché sono fonte di contagio; la movida va assolutamente proibita perché genera comunque guai a livello di infezioni; in casa meglio evitare la presenza di persone che non appartengono allo stesso nucleo familiare; nei locali chiusi rispettare le regole di precauzione, come mascherine e distanziamento. Assicuriamoci effettivamente che vengano seguite queste quattro regole basilari, poi vediamo come si muovono le curve epidemiologiche e in base al trend ragioniamo sulle contromisure, procedendo per gradi. Se nel frattempo si accelera sui vaccini, sarà possibile via via allargare le maglie senza correre rischi.
Intervista a Girolamo Sirchia
Il Sussidiario
24 Febbraio 2021