Lettera di una donna che non ha potuto assistere fino all’ultimo la madre, morta di Covid
Gentile direttore, ho letto circa venti giorni fa, con grande dolore, un articolo pubblicato dal giornale Avvenire dal titolo “Che nessun malato resti solo, che nessuno muoia solo”. Scrivo “con dolore” perché la mia mamma è morta per Covid l’8 novembre 2020. Lei è volata in Cielo ed io sono rimasta sulla terra piena di domande rimaste senza risposte, sensi di colpa immensi ed un dolore che si riaccende quando la mia mente pensa a lei.
Mia mamma aveva compiuto da poco 90 anni. Non voglio neanche più sentire dire “era vecchia, ha vissuto la sua vita…” questo lo so, ma era la mia mamma ed una mamma, a qualsiasi età muoia, spezza sempre il cuore dei figli. Non aveva patologie, era vivace dal punto di vista intellettivo e desiderosa di accompagnare per qualche tempo ancora i suoi nipoti nel percorso della loro vita (non vedeva loro di assistere, ad esempio, alla laurea del mio secondo figlio a luglio), voleva essere d’aiuto a me, perché sapeva quanto la mia vita fosse legata alla sua per interessi comuni ed un affetto immenso ed era consapevole che io, per temperamento, avrei fatto molta fatica ad affrontare e prendere delle decisioni senza i suoi preziosi consigli: in poche parole aveva una vita ancora felice, seppure malinconica per la scomparsa del suo adorato marito avvenuta nel 2012.
Tutto inizia a fine ottobre, il 26 per la precisione, in quanto ci accorgiamo che, probabilmente, il maledetto virus sta entrando silenziosamente a casa nostra. Per farla breve nel giro di pochi giorni ci ritroviamo tutti (marito, due figli, la mamma ed io) con sintomi diversi, ma tutti riconducibili al Covid, apparentemente colpiti in modo lieve e nonostante le tante misure di protezione adottate da un anno a questa parte. Il 28 ottobre mi accorgo che la mamma, la sera, ha 37 di febbre che scende, però, veloce con la tachipirina; il giorno dopo, già terrorizzata ma inconsapevole della tragedia che avrei vissuto, iniziamo tutti la terapia anticovid (azitromicina, bentelan ed in più eparina per la mamma e per precauzione prendiamo una bombola di ossigeno) prescritta dal nostro medico.
Fino a venerdì le cose sembrano essere sotto controllo, la mamma è vigile, senza tosse, né mal di gola, né affanno. Sabato 31 ottobre, la mattina, ci rendiamo conto che la saturazione della mamma senza ossigeno non regge e che ne ha sempre bisogno di più. Il medico di base ci consiglia il ricovero, così come una amica di famiglia, medico lei stessa.
Da questo momento inizia il vero dramma. La mamma viene prelevata da due persone, gentili ma molto distaccate, nel loro scafandro bianco alle 12,30 ed io, tra le mie lacrime ed il suo sguardo tra l’incredulo e il rassegnato, la vedo salire in ascensore con gli occhi fissi nei miei, quegli occhi dolci e rassicuranti che mai avrei più rivisto. Tra noi due neanche un abbraccio o un bacio poiché, in cuor mio, speravo che lei non fosse positiva.
La mamma viene portata in un ospedale appena fuori Milano, poiché in quei giorni tante erano le richieste di ricovero, e sta in fila ore in ambulanza, chiamandomi al cellulare spaventata e disorientata per ciò che stava vivendo e già desiderosa di tornare a casa tra i suoi affetti.
Alle 20, dopo un po’ di ore di silenzio, sono contattata da un medico che mi comunica che il tampone della mamma è positivo, che ha una polmonite bilaterale più marcata a destra e che deve attendere che si liberi un posto in reparto… Rimane, quindi, due giorni al pronto soccorso, dove telefoniamo ogni sera per avere notizie.
Fino al martedì le cose sembrano andare bene: non ha più febbre (ha avuto un picco il primo giorno di ricovero di 39), la saturazione è buona con reservoir, il quadro clinico stabile e, in quei giorni, sembra addirittura in via di miglioramento. Tutto questo fino a mercoledì 4 novembre.
Un medico, crudamente, il giorno seguente, ci comunica che la situazione è precipitata all’improvviso e che la saturazione è talmente bassa che lui non capisce come faccia a respirare e aggiunge che non avrebbero usato né il casco, né l’avrebbero intubata per l’età. Ciò mi fa impazzire, perché non capisco se sia la procedura o se, essendo anziana, non tentano il tutto per tutto (ma questi pensieri li tengo per me), so che in altre strutture sanitarie provano tutto, tanto cosa avremmo da perdere? La stessa sera richiamo e, come se fosse normale, mi comunicano che l’avrebbero sedata perché iniziava ad avere dolore (senza specificare che tipo di dolore) e mi dicono, in quel momento, se desideravo fare una videochiamata, ovviamente rispondo affermativamente. Questo avviene: io e la mia famiglia vediamo la mamma, per l’ultima volta, in modo indistinto e per un tempo brevissimo che noi sfruttiamo al massimo cercando di incoraggiarla e lei, per la prima volta, piangendo ci dice che le manchiamo e che si sente male. Basta. Da questo momento la mamma per noi non c’è più visivamente e ci siamo dovuti accontentare, dal 31 ottobre all’8 novembre, di una veloce videochiamata. Il peggio non è finito. Capiamo, anche se non siamo medici, ma siamo persone pensanti, che la mamma non sarebbe più tornata da noi ed allora ci attiviamo perché non sia sola in quegli ultimi e decisivi momenti.
Già dal giorno dopo il ricovero avevo cercato un cappellano, ma l’ospedale in questione, essendo semiprivato, non contempla questa figura; non contenta cerco il cappellano dell’ospedale cittadino in cui c’è la struttura dove è ricoverata la mia mamma, che si mostra umanissimo e disponibile a darle l’estrema unzione. Questo sacerdote non viene fatto accedere al reparto covid, perché durante la seconda ondata, non è stato ancora riattivato il servizio e la mamma perde anche questa opportunità, cioè quella di avere una figura per lei rassicurante, seppur sconosciuta, al suo fianco.
Allora giochiamo un’altra carta: mio figlio maggiore ed io siamo volontari della Croce Rossa e la squadra della Cri del Comune in questione si muove per cercare di capire se almeno loro possano arrivare a dare conforto alla mamma. Loro che trasportano malati Covid giorno e notte… niente da fare, non vengono fatti accedere al reparto.
La mamma rimane sola a vivere il momento decisivo della sua vita, affrontando in solitudine, per la prima volta nella sua vita, la cosa che più spaventa ognuno di noi: la propria morte.
Noi siamo a casa, cerchiamo di trovare conforto nella preghiera; il cappellano ci chiama per recitare insieme una invocazione per i morenti. Io sono disperata, perché non ho mai lasciato la mamma quando capitava che stesse male e deve rinunciare a tenerle la mano in un momento così terribile. Riaffiorano in me tutti gli errori commessi con lei, le volte che per nervosismo e stanchezza le ho risposto male, ho perso la pazienza e le vorrei chiedere perdono per tutto, anche se so che una mamma perdona sempre tutto ai propri figli; a me, però, non basta questa consapevolezza, io avrei bisogno di accarezzarla, rassicurarla, dirle che non è sola, che è la base più solida della nostra famiglia, che non deve lasciarci, che deve combattere. Sempre più agitata, sono passati due giorni da quando è sedata ed io spero sempre in un miracolo, richiamo l’ospedale e lo stesso medico, crudo e brusco, mi dice: “Sua madre è in pre-morte, tempo un’ora e non ci sarà più”. È sabato 7 novembre.
Con queste parole, io e la mia famiglia accompagniamo idealmente la mamma verso il suo compimento, con l’agitazione tipica di noi esseri umani e facciamo una veglia fino alle 2 di notte, attendendo una telefonata che ci avverta che tutto è concluso, ma ciò non avviene.
La mamma non è morta dopo un’ora, perché quel medico non è Dio e non poteva sapere quando la vita rinasce al Cielo. La mamma termina il suo cammino sulla terra domenica 8 novembre alle 14,30 e con lei si conclude un’altra fase della nostra vita.
Non avrei mai voluto arrivare a quel giorno, perché la mia mamma era immortale ai miei occhi e, invece, ci è stata strappata in modo così barbaro e crudele, senza un abbraccio finale, un conforto per lei. Sono stati i dieci giorni peggiori della nostra vita, sapendo che era là da sola, combattendo il male e non potendola vedere, parlare, abbracciare, stringerla; avremmo fatto di tutto pur di stare là, vicino a lei, indifesa e fragile. La sensazione che ho provato è stata quella di perdere una figlia, perché ad una certa età i ruoli si invertono e, nonostante la mamma fosse una “vecchietta pimpante”, non era più la mamma giovane e invincibile ed io ero il suo bastone e la curavo con l’amore che una mamma può avere per la sua “bambina”. Adesso il mondo per noi è cambiato, niente sarà come prima, perché vivere un lutto così ti mostra in modo brutale la situazione di solitudine e snaturizzazione dell’umano che stiamo vivendo.
Mio papà è scomparso otto anni fa e noi siamo stati con lui, vicino a lui a confortarlo fino ad un’ora prima che morisse (perché ci hanno mandato a casa in quanto sembrava stazionario), ci siamo abbracciati, baciati, accarezzati… l’ho visto nella bara, ho visto il coperchio chiudersi sopra il suo dolce viso. Per la mamma tutto è andato diversamente: il suo corpo è stato messo in una cassa dentro un sacco, senza i suoi vestiti… questo anche mi fa impazzire ed io attraverso il racconto della sua storia voglio darle quella dignità che le è stata tolta e voglio dare a me un senso per questa morte terribile. Non si può morire da soli, non si può lasciare un’anziana ad affrontare la morte così.. io ero positiva, la mia famiglia era positiva, cosa sarebbe successo a concedere a noi la possibilità di entrare anche solo un quarto d’ora per stare ancora con lei un’ultima volta?
Lei era il faro della nostra famiglia alla quale ha dedicato tutta la sua vita, rinunciando al suo lavoro, ai suoi interessi, alle sue passioni per crescere prima noi figlie con dedizione e amore, poi i suoi amati nipoti per i quali stravedeva, anteponendo sempre le nostre necessità alle sue. Lei era la radice del nostro essere, la nostra consistenza e ci dava solidità di sguardo e serenità di cuore.
È stata un esempio di generosità e amore incondizionato: verso suo marito Luciano di cui sentiva una struggente nostalgia e malinconia, verso noi figlie, verso i nipoti che ha cresciuto giorno per giorno con amorevole cura e dedizione che solo una persona come lei poteva dare, verso tutte le generazioni di bambini che ha cresciuto attraverso il suo servizio come catechista per 30 anni. Non si è mai tirata indietro per nessuno: è stata la spalla che ha retto tutti e il conforto per ognuno di noi, orgogliosa di tutto ciò che facevamo. Ora godeva della vita dei suoi nipoti di cui era fierissima: per lei non avevano nessun difetto, solo pregi. In realtà era lei che vedeva ognuno di noi con gli occhi dell’amore che solo una mamma sa avere e noi non sempre l’abbiamo ringraziata abbastanza, magari sgridandola perché, invecchiando, ogni tanto faceva qualcosa che non ci andava bene.
Le chiediamo perdono per tutto: per le parole dette di troppo, per gli sbagli commessi, per la mancanza di pazienza perché era meno veloce; in realtà non accettavamo che le cose in lei cambiassero per non dover ammettere che l’età avanzava. Spero, però, che abbia capito quanto l’abbiamo amata e quanto ora lascia in noi un vuoto incolmabile. Ora nessuno ci amerà come ha fatto lei, amandoci più di se stessa. Vorremmo sentirla vicina, sentire la sua voce tesa a confortarci per quanto si è abbattuto su di noi sconvolgendo le nostre fondamenta, perché a qualunque età si perda un genitore ci si trova faccia a faccia con la mortalità di quelli che amiamo e di noi stessi. Quando una mamma muore il dolore non passa mai e la mancanza sarà per sempre. Spero che lei abbia capito che non l’abbiamo lasciata sola, perché a casa pregavamo incessantemente per un miracolo: la sua guarigione.
Ci manca già moltissimo e, in attesa di riabbracciarla, la ringraziamo per tutto quello che ci ha donato, insieme al papà Luciano. Ora crediamo che sia in pace ed in Cielo con il nostro adorato papà Luciano; ringraziamo il Signore per averci donato una mamma così e preghiamo che lei, dall’alto, continui a supportarci, a vegliare i nostri passi e li conduca verso il Bene dando un po’ di sollievo al nostro immane dolore.
Sabrina Sberna
3 marzo 2021