Il problema della pandemia è da considerarsi risolto o in via di soluzione in quei paesi che hanno saputo gestirlo. Non per gli altri. Fra questi, purtroppo, ci siamo noi
Possiamo considerare il Covid-19 un problema risolto? La domanda può sembrare assurda in un paese che ha appena confermato e per verti versi accentuato le restrizioni, e in un continente in cui i governi chiudono ancora certe frontiere. Ma è invece del tutto ragionevole se si guardano i dati internazionali su contagi e vaccinazioni. I paesi che hanno accelerato l’approvvigionamento e la diffusione dei vaccini, passando rapidamente alla monodose, abbattono i contagi al di là delle aspettative. Il caso macroscopico è Israele, che ha vaccinato già oltre il 90 per cento della popolazione e ora regala i vaccini che restano ad alcuni paesi poveri. Ma anche gli Stati Uniti si avviano nella stessa direzione.
L’amministrazione Biden ha impresso una sterzata, pur senza abbandonare il concetto trumpiano di “America First”, offrendo condizioni attraenti alle compagnie farmaceutiche in cambio di approvvigionamenti rapidi e rendendo quindi conveniente alle compagnie indirizzare la produzione verso gli USA. Ha anche potenziato la logistica per velocizzare l’inoculazione. L’approvazione recente del vaccino monodose Johnson & Johnson accentuerà ulteriormente un processo che ha già portato il paese a una percentuale di vaccinati del 25 per cento (ricordiamo che la percentuale minima per l’immunità di gregge è attorno al 65 per cento). Anche Regno Unito post-Brexit sta dando una buona prova, con oltre il 30 per cento di vaccinati. Non è affatto escluso, anzi è probabile, che questi paesi e altri sulla stessa scia potranno, una volta arrivata la bella stagione e portata avanti ulteriormente la strategia, voltare pagina definitivamente.
Il tratto comune di questi paesi sta nell’aver messo in campo tutte le risorse necessarie, finanziarie e logistiche. Whatever it takes, verrebbe da dire. E ne vale la pena. Clemens Fuerst e Daniel Gros mostrano in un recente articolo che il prezzo per dose necessario per indurre le imprese farmaceutiche ad accelerare la produzione è trascurabile rispetto al vantaggio, anche solo economico, di mettere ogni persona in più al riparo del virus. Non conviene quindi negoziare oltre un certo limite sui margini di prezzo, o entrare in conflitto con le imprese contestando presunte inadempienze. Meglio modificare le condizioni offerte rendendole non solo più favorevoli, ma soprattutto premianti in caso di consegna anticipata. Purtroppo, questa non è finora la strategia dell’Unione Europea. L’UE non pubblica i contratti stipulati, ma dall’unico disponibile al pubblico, quello con AstraZeneca, si desume leggendo fra gli “omissis” che la Commissione impone alla compagnia condizioni di profitto zero. Perché mai una impresa privata che ha fatto ricerca e investimenti riuscendo a produrre un nuovo farmaco a tempo di record non dovrebbe trarne un ragionevole profitto? Nel frattempo, il tasso di vaccinazione nell’Unione, secondo gli ultimi dati, si ferma al 7 per cento.
In termini un pò semplificati, la risposta alla domanda iniziale è dunque questa: il problema Covid, comprese tutte le varianti oggi note ed escludendo evoluzioni negative oggi non previste, è da considerarsi risolto o in via di soluzione in quei paesi che hanno saputo gestirlo. Non per gli altri. Fra questi, purtroppo, ci siamo noi.
Vale allora la pena cominciare a fare qualche prima riflessione su come può essere l’uscita dal virus, per quanto riguarda l’economia globale. Ci sarà una ripresa, questo è chiaro, ma quanto forte? Come distribuita, e con quali caratteristiche?
Purtroppo (anzi, per fortuna) non esistono precedenti storici recenti e paragonabili di pandemie di questa portata a cui rifarsi per un confronto. La Grande Influenza (1918-1920), che fece un numero di morti ben maggiore, ebbe conseguenze che si sovrapposero a quelle dell’uscita dalla prima guerra mondiale. Sugli sviluppi di quel tormentato periodo influirono anche eventi eccezionali – rivoluzioni, guerre civili e l’impatto economico nefasto del trattato di pace. Per certi versi più utile può essere riferirsi alla fase successiva alla seconda guerra mondiale. Pur nella diversa natura e proporzione dei due eventi, il confronto offre qualche spunto perché durante la seconda guerra mondiale l’economia dei principali paesi subì l’effetto congiunto di tre fattori – l’aumento forzoso del risparmio; la riconversione produttiva; l’aumento dell’intervento pubblico – che si ritrovano in qualche misura anche nell’esperienza Covid. A partire dalla seconda metà degli anni quaranta, mentre l’Europa iniziava lentamente la sua ricostruzione, l’economia americana smentendo le previsioni degli economisti che prevedevano recessione iniziava una fase ininterrotta di crescita durata un quindicennio. Il motore principale di quel miracolo economico fu la ripresa della propensione alla spesa delle famiglie, che fu talmente forte da compensare più che interamente la riduzione delle commesse militari. La domanda aggregata favorì la rapida riconversione dall’economia dalla struttura di guerra a quella di pace.
Alcune di quelle circostanze potrebbero ripresentarsi oggi. Un recente studio della BCE documenta il forte aumento della propensione al risparmio individuale nel 2020, oltre 5 punti percentuali rispetto al reddito disponibile delle famiglie. Si tratta di risparmio precauzionale o forzoso: spese cancellate o rimandate o a causa dell’incertezza o per l’impossibilità di spendere. L’aumento del tasso di risparmio si è sommato alla riduzione del reddito disponibile, pari a circa un altro 5 per cento. È da attendersi un rimbalzo equivalente nell’uscita dal virus, forse anche superiore, se una parte delle spese è stata solo rimandata.
La crisi ha anche causato o accelerato la riconversione produttiva verso settori ad alta intensità tecnologica sfavorendo, temporaneamente, alcune categorie di servizi come turismo, trasporti e ristorazione. Non appare irragionevole ipotizzare uno scenario in cui alla ripresa della spesa delle famiglie si combinerebbe un ritorno della domanda in questi settori penalizzati, mentre altri che hanno guadagnato nella crisi (telecomunicazioni, grande distribuzione online, biotecnologie, ecc.) non perderebbero il vantaggio acquisito ma anzi continuerebbero a progredire. A questo si aggiungerebbe l’intervento pubblico, ormai indirizzato strategicamente, soprattutto in Europa, verso la realizzazione di investimenti pubblici infrastrutturali e il potenziamento della sanità, dell’istruzione e della riconversione energetica e ambientale.
Uno scenario virtuoso possibile, ma che per ora può essere descritto solo con verbi al condizionale. Quello che è certo è che la ripresa sarà ineguale, proprio in relazione alle diverse strategie sanitarie descritte in precedenza. I divari già si vedono, con i paesi emergenti dell’Asia già lanciati e che hanno recuperato i livello pre-crisi, gli Stati Uniti che proprio in queste settimane continuano a sorprendere con dati positivi, e l’Europa (con l’Italia vicino alla coda) ancora nelle secche della recessione. Nel vecchio continente è urgente una sferzata per ridurre i divari e intensificare gli sforzi sul duplice fronte della strategia sanitaria e del rilancio economico. Proprio quella che, a quanto è dato sapere, il presidente Draghi ha cercato di imprimere la settimana scorsa nella riunione del Consiglio Europeo.
Ignazio Angeloni
Il Foglio
8 Marzo 2021