L’ex direttore del Wsj Gerard Baker spiega che Pechino ha imparato da noi ad accusarci di razzismo, scrive il Wall Street Journal (22/3)
I capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo’. Questa frase, attribuita a Lenin, è una metafora colorita di ciò che i marxisti chiamano le contraddizioni interne del capitalismo”. Così inizia l’articolo di Gerard Baker sul Wall Street Journal: “La fiducia nell’inevitabile tracollo dell’occidente ha animato i comunisti sovietici fino al 1989, quando il loro sistema si è rivelato più autodistruttivo del capitalismo. Ma la vecchia massima oggi ha assunto una forma nuova e più plausibile. Lo abbiamo visto la scorsa settimana nell’incontro tra i consiglieri alla politica estera del presidente Biden e i moderni paladini del primato del marxismo-leninismo del Partito comunista cinese. Fin dal momento in cui le due delegazioni si sono sedute al tavolo, era chiaro che una leadership cinese invigorita avesse capito che la più grande arma ideologica che possiede nello scontro sempre più esistenziale con l’America è l’entusiasmo gioioso per l’autodistruzione che caratterizza gran parte dell’élite americana. Yang Jiechi, il responsabile degli Esteri del Partito comunista, ha rimproverato il segretario di stato Antony Blinken per le violazioni dei diritti umani compiute dall’America, il trattamento delle minoranze e le ingiustizie strutturali del suo sistema. Tutto ciò che ha detto poteva essere preso direttamente dal manifesto elettorale del Partito democratico, da articoli di giornali che hanno vinto il premio Pulitzer o dagli appunti degli alunni delle migliori università americane. Infatti, probabilmente lo era.
La verità di fondo è che le persone che controllano le maggiori istituzioni culturali americane, e ora anche il governo, hanno felicemente costruito la corda per il boia cinese, e hanno aumentato la produzione nell’ultimo anno. Il movimento culturale a cui appartengono è stata la forza dietro alla distruzione – sia figurativamente che letteralmente – dei pilastri dell’autorità americana nel mondo: l’idea che la più grande nazione del pianeta è stata fondata sugli ideali universali della dignità e della libertà umana. Invece loro insistono, proprio come quei comunisti cinesi, che questa pretesa di essere una potenza unica al mondo è stata una frode, un mero slogan dietro al quale l’America è stata, e rimane, una potenza dedita alla repressione e allo sfruttamento.
Come fa una nazione a prevalere in questo scontro ideologico globale quando i propri leader sostengono che i suoi valori sono inerentemente maligni? Yang e i suoi colleghi si saranno fatti quattro risate tornando a Pechino. Stanno probabilmente irridendo i valori in cui credono i nuovi padroni dell’America – scusate, le figure al vertice di sesso imprecisato. Non si tratta delle divise di volo ad hoc per le pilote incinte o dei nuovi criteri per le capigliature dei soldati di cui si è vantato il presidente a inizio mese. Il problema è l’elevazione del vittimismo come prima forma di virtù nell’America moderna. Che tu sia un teppista giovane e opportunista che passa le giornate a derubare i negozi Gucci o una celebrity miliardaria che va a caccia di buona pubblicità, basta fingere di essere un povero innocente sfruttato da un sistema inerentemente ingiusto, e puoi stare tranquillo.
E’ difficile immaginare una società di successo in cui sostenere di essere vittima di un’oppressione – un’accusa spesso campata per aria – è il modo più veloce per fare carriera. Il problema è la distruzione dell’idea di eccellenza accademica che sembra avere contagiato gran parte dell’establishment universitario. I democratici che controllano le principali città americane perdono il loro tempo a togliere opportunità ad alcuni dei bambini più svantaggiati che riescono a essere ammessi nelle scuole più selettive solamente grazie al loro talento. Ci viene detto che questo atto è discriminatorio. Il risultato è un impoverimento generale. E ovviamente il problema sta nell’insistenza fanatica sulle qualità che dividono anziché unire gli americani – razza, orientamento sessuale – e che vengono viste come le caratteristiche principali dell’identità. E’ un’amara ironia che le teorie marxiste sull’oppressione strutturale che sono state screditate dall’esperienza degli avversari ideologici dell’America nel secolo scorso sono rampanti nell’élite americana del giorno d’oggi. Questa è la rivincita di Lenin. I cinesi si sono rivelati molto più capaci dei loro predecessori russi ad adattare le idee del marxismo alla realtà economica. Come aveva previsto Lenin, hanno ricevuto un grande aiuto dai capitalisti americani in questo processo. Ma anche le nostre élite culturali sono state molto impegnate a esportare la corda del boia sull’altra sponda del Pacifico. Almeno i capitalisti gliel’hanno venduta. Invece gran parte dell’America moderna sembra intenzionata a dargliela senza farsi nemmeno pagare”.
La Traduzione è di Gregorio Sorgi
Il Foglio
5 Aprile 2021