Si è riusciti a far crescere “in bottiglia” degli embrioni di topo rimuovendoli dall’utero materno. Cosa significa e quali implicazioni ha?
«I feti venivano coltivati in bottiglia e ci si garantiva massima uniformità umana usando ovuli estratti da un numero limitato di madri»: così Aldous Huxley, nel suo Ritorno al mondo nuovo ha descritto profeticamente una prospettiva futurista che è già divenuta realtà.
La notizia, rispetto alla legalizzazione dell’eutanasia in Spagna o alla ripresa della campagna vaccinale con il prodotto di Astrazeneca, è passata in secondo piano nella maggior parte delle testate informative soprattutto nazionali, ma il New York Times ha riferito che un team di ricerca israeliano ha compiuto il primo vero passo verso il perfezionamento dell’utero artificiale riuscendo a far crescere “in bottiglia” degli embrioni di topo rimuovendoli dall’utero materno e facendoli sviluppare in utero artificiale fino a circa metà della loro gestazione, precisando che nell’uomo – ad un pari stadio di sviluppo – si parlerebbe già di feto.
Gli studi sull’utero artificiale vanno avanti da decenni, ma non erano mai giunti fino a questo punto.
L’avvento di una simile tecnologia pone inevitabilmente degli interrogativi di carattere etico e soprattutto giuridico.
Una tale forma di tecnologia, infatti, ha delle evidenti ricadute di carattere antropologico che non possono essere ignorate.
In primo luogo: si sancisce per via meccanica l’egualitarismo più assoluto e radicale tra i due sessi, perdendo la donna la propria prerogativa naturale di dare alla vita altri esseri umani.
In secondo luogo: l’utero artificiale è ampiamente probabile che diventi il nuovo eldorado dell’industria mondiale della procreazione assistita, che già fattura diversi miliardi di dollari ogni anno, con ulteriore strumentalizzazione dell’umanità e dei più vulnerabili, cioè, appunto, i neonati i quali a tutti gli effetti diventerebbero merce di scambio, in quanto oggetto del “contratto di gestazione artificiale” tra i committenti e l’agenzia che si incaricherebbe di consegnare il “prodotto”.
In terzo luogo: l’utilizzo della tecnologia dell’utero artificiale sancirebbe in via fattuale ciò che in via teorica è sempre stato escluso anche dalla più progressista giurisprudenza che sul punto si è espressa, cioè il diritto al figlio.
Potendo i figli essere prodotti da una macchina, tramite una catena di montaggio altamente tecnologica e biologicamente avanzata, nessuno potrebbe impedire il riconoscimento formale di un vero e proprio “diritto al figlio”, specialmente se i costi di una tale produzione della prole fossero ritenuti meritevoli di essere sopportati dalle casse pubbliche del sistema sanitario nazionale.
Questo aspetto suggellerebbe ulteriormente la reificazione del nascituro equiparato in tutto e per tutto ad un qualunque prodotto industriale.
In quarto luogo: senza dubbio una tale forma di tecnologia applicata agli esseri umani comporterebbe anche il rischio di una sempre più diffusa forma di eugenetica che consentirebbe di selezionare i requisiti che si desidera possano avere i nascituri, conservandosi intatti tutti gli interrogativi etici tipici dei trattamenti eugenetici che si riproporrebbero con rinnovato vigore.
Chi sarebbe, infatti, autorizzato a scegliere i requisiti delle nuove generazioni dell’umanità? Quali sarebbero i criteri adottati per sapere chi sarebbe autorizzato a tali scelte? Quante sono le probabilità per cui ci si potrebbe ritrovare ben presto all’interno di uno scenario socio-politico in cui la genitorialità sarebbe assicurata (o, forse, autorizzata) soltanto per coloro che sarebbero disposti a ricorrere non soltanto all’utero artificiale come mezzo procreativo, ma alla selezione eugenetica delle caratteristiche della propria prole in virtù di un perfezionamento generale dell’umanità?
Come si evince anche da queste pur fugaci considerazioni, dunque, l’utero artificiale si propone come strumento dirompente e di totale sovvertimento della dimensione antropologica, dovendosi – fin da queste fasi iniziali del suo sviluppo – premurare le pubbliche autorità di trovare una forma di regolamentazione giuridica – per esempio vietandone l’uso per produrre esseri umani – che ne disciplini l’uso al fine di evitare che una simile tecnologia sfugga al controllo, come altre volte in passato è già accaduto.
Il principio di precauzione, così come quello di responsabilità, tornano dunque a suggerire la massima cautela in sperimentazioni del genere, evitando di lasciare da solo lo sviluppo scientifico – che come altre volte rischia di autolegittimarsi in maniera autoreferenziale – senza una adeguata, preliminare e necessaria riflessione etica e giuridica che possa prevenirne o almeno limitarne gli eventuali effetti collaterali.
Aldo Vitale
21 marzo 2021