Solo ora il Paese comincia davvero a capire come ci si deve comportare per evitare di ricadere nell’emergenza. Alla fine si parla tanto di territorio, ma sono gli ospedali a sostenere integralmente il peso dell’assistenza dall’inizio della pandemia. Oggi abbiamo i vaccini, questa arma straordinaria che è la nostra ancora di salvezza, ma su un terreno di battaglia incerto come quello che stiamo affrontando può succedere di tutto, le varianti ne sono solo un esempio. Per questo quando tiriamo il fiato lo facciamo con un retropensiero di timore, sarà davvero la fine?
È difficile raccontare i sentimenti di chi ha vissuto in questo anno e mezzo la pandemia dalla prima linea e ora, finalmente, intravvede la fine della tragedia che ha investito il mondo. La copertina del New Yorker rende bene le emozioni di questi giorni: disegnata dall’artista turco Gürbüz Dogan Eksioglu, mostra una famiglia di quattro persone che si tengono per mano avvicinarsi a un’enorme porta nera semiaperta oltre la quale si scorgono alcuni grattacieli di New York, sovrastati da un cielo azzurro. È il lento ritorno alla normalità, il cielo azzurro irrompe nel mezzo del nero della porta che ancora però occupa gran parte dell’immagine.
I reparti Covid si svuotano, molti vengono chiusi, gli accessi ai Pronto soccorso si azzerano o quasi, tutto nel mondo reale, fatto dai malati e non solo da asettici dati, sembra andare nella giusta direzione. E anche i vari Rt, R0, tasso di positività, prima di pochi mesi fa termini solo per gli addetti ai lavori e oggi usati quasi al pari di locuzioni calcistiche da bar, volgono tutti al meglio. E allora non va tutto bene? Sì, certo, ma in fondo a noi stessi non riusciamo a essere del tutto sereni. Sapete perché? Per l’estate scorsa. Anche allora noi sanitari ci eravamo illusi, tutto ci faceva credere che l’incubo stesse finendo, poi da settembre abbiamo cominciato a vedere i numeri dei ricoveri che crescevano nell’indifferenza generale, una salita che da inizialmente lenta si è poi trasformata in una marea montante che ci ha travolto con la seconda e poi la terza ondata. Ora non ne possiamo più, ci è arrivata addosso tutta la stanchezza di questi mesi passati, e se l’adrenalina e il sostegno del Paese si sono visti nel primo periodo, dopo siamo rimasti soli, con risorse ridotte al minimo, a assistere i malati di Covid 19, a riprendere le cure a quelli con le altre patologie, e a fare di tutto, vaccini compresi.
Sì, perché alla fine si parla tanto di territorio, ma sono gli ospedali a sostenere integralmente il peso dell’assistenza dall’inizio della pandemia. Oggi abbiamo i vaccini, questa arma straordinaria che è la nostra ancora di salvezza, ma su un terreno di battaglia incerto come quello che stiamo affrontando può succedere di tutto, le varianti ne sono solo un esempio. Per questo quando tiriamo il fiato lo facciamo con un retropensiero di timore, sarà davvero la fine? Tutti sappiamo che il mostro non se ne andrà completamente, che resterà con noi come endemico per un po’, nelle prossime settimane si ridurranno moltissimo i numeri degli infettati, pochi necessiteranno di ricovero ospedaliero e diminuiranno i decessi, ma non lo sconfiggeremo subito definitivamente e potrebbe rialzare la testa. Sapremo essere vigili? Riusciremo a non farci trascinare da una euforia più che comprensibile ma pericolosa? Ecco perché malgrado tutto, anche se ci piacerebbe vedere solo l’azzurro del cielo della copertina del New Yorker, non riusciamo a scordare il nero della porta, sia per il rispetto a tutti quelli che ci hanno lasciato, sia per le incertezze che restano in un Paese che solo adesso comincia davvero a capire cosa è accaduto e si interroga su come ripartire.
Sergio Harari
Corriere della Sera
25 Maggio 2021