L’agguato a monsignor Christian Carlassare, il comboniano recentemente gambizzato nel Sud Sudan, ha ricordato al pubblico occidentale quanto non sia facile fare i vescovi in alcune zone dell’Africa sub-sahariana. Qualcosa ne sapeva, nella vicina Uganda, anche Cyprian Kizito Lwanga, arcivescovo di Kampala dal 2006 e ritrovato senza vita nella sua stanza da letto lo scorso 3 aprile.
Il presule aveva 68 anni e poche ore prima aveva partecipato alla Via Crucis nella cattedrale di Namirembe. La notizia della sua morte improvvisa ha lasciato in stato di shock il Paese dove Lwanga era amatissimo dal popolo, ma temutissimo dal potere per la sua franchezza. Due giorni dopo il ritrovamento, mentre già montavano i sospetti tra i suoi numerosi sostenitori, è stata fornita la causa ufficiale del decesso dopo un esame post-mortem effettuato presso l’ospedale Mulago alla presenza di due rappresentanti della famiglia e di due medici inviati dall’arcidiocesi: ischemia miocardica a seguito di trombosi dell’arteria coronaria. Ma la storia personale dell’arcivescovo, il suo peso nella vita pubblica dell’Uganda e l’abitudine agli omicidi politici hanno fatto sì che il responso medico non scalfisse la convinzione di tanti sul fatto che a ucciderlo non sia stato un attacco di cuore.
Paradossalmente, a rinfocolare i dubbi ci ha pensato lo stesso uomo a cui gli ‘orfani’ di Lwanga hanno subito puntato il dito come responsabile morale del presunto – e formalmente smentito dai documenti ufficiali – assassinio: il presidente Yoweri Museveni, padre-padrone dell’Uganda dal 1986 e protagonista di durissimi scontri verbali con lo scomparso. Poco dopo i funerali, il politico – che da sei mandati guida lo Stato dell’Africa Orientale – ha chiesto ai dottori di “spiegare di più” sulla causa della morte dell’arcivescovo, arrivando a sostenere che un giorno dovranno chiarire alla nazione perché non sono riusciti a tenere sotto controllo le sue condizioni di salute. Salutandone il feretro durante il funerale, Museveni ha poi reso un omaggio beffardo al defunto, ricordando come fosse stato un suo simpatizzante. In realtà, ormai da anni, i rapporti tra il presidente ed il presule erano più che burrascosi, con accuse e denunce pubbliche capaci di provocare grande clamore tra la popolazione.
Nel 2018 avevano raggiunto il punto più basso, con una clamorosa omelia pronunciata il Venerdì Santo durante la quale Lwanga aveva rivelato di aver ricevuto una telefonata anonima che lo avvertiva di essere spiato tramite religiosi reclutati dal governo e gli preannunciava la stessa sorte del vescovo anglicano Luwum, assassinato nel 1977 su ordine dell’allora presidente Idi Amin. Qualche mese più tardi, Museveni aveva usato il suo discorso di fine anno per attaccare frontalmente “alcuni leader religiosi così pieni di arroganza” paragonandoli a Caifa, il sommo sacerdote che
processò Gesù. Nemmeno in quel caso l’arcivescovo era rimasto in silenzio, appellandosi alla libertà di espressione garantita in Costituzione e ai princìpi originari del Movimento di resistenza nazionale, accusando indirettamente il suo fondatore
Museveni di averli traditi. “Non staremo zitti”, aveva detto Lwanga quando il capo dello Stato aveva reagito infastidito alle sue critiche sull’eliminazione del limite d’età per ricandidarsi. E non si era mai tirato indietro nel denunciare la sistematica violazione dei diritti umani, la repressione ai danni delle opposizioni e l’uso della violenza da parte dei reparti militari agli ordini del governo.
Una figura autorevole, una voce ascoltata nel suo Paese ma anche a Roma al punto da sfiorare la porpora in almeno tre occasioni: nel secondo e soprattutto nel terzo concistoro del pontificato di Benedetto XVI il suo nome veniva dato per certo nella lista dei nuovi cardinali; così come di lui si tornò a parlare nel 2015 dopo la visita di Papa Francesco in Uganda. I suoi numerosi estimatori continuano ad essere convinti ancora oggi che ad ostacolargli l’ingresso nel club più esclusivo del mondo contribuirono le calunnie messe in giro dai nemici in patria. Calunnie che raggiunsero l’apice nel corso delle ultime presidenziali, quando Lwanga venne accusato addirittura di aver tentato di complottare contro il candidato Bobi Wine con l’obiettivo di avvelenarlo attraverso l’Eucarestia. Proprio lui che per amore di Gesù Sacramentato e per scongiurare atti sacrileghi aveva vietato di distribuire o ricevere la Comunione nelle mani nell’arcidiocesi di Kampala.
Durante quella campagna elettorale, si disse di lui che si era lasciato ‘comprare’ da Museveni. Accuse prese di petto negli interventi pubblici e respinte con forza dallo stesso arcivescovo che, recentemente, aveva dimostrato come fosse tutt’altro che accondiscendente con il presidente riconfermato alle urne lo scorso gennaio, tra le proteste dell’opposizione. Nel giorno del 24esimo anniversario della visita di San Giovanni Paolo II a Kampala, Lwanga aveva ancora una volta richiamato i valori che avevano ispirato il Movimento di resistenza nazionale nella lotta contro i regimi di Idi Amin e Milton Obote, attaccando le forze di sicurezza che con rapimenti, torture e omicidi rischiano di far precipitare il Paese nel passato più buio.
Ed è proprio ai presunti metodi all’insegna del terrore messi in pratica dai militari ugandesi contro gli avversari politici e le voci dissidenti che l’arcivescovo ha dedicato il suo ultimo discorso, nella Via Crucis che ha preceduto di qualche ora la sua morte. Per il presule, la scomparsa di tanti giovani – molti dei quali appartenenti al National Unity Platform – per mano di sedicenti agenzie di sicurezza “sta provocando rabbia, divisione, paura e ansia all’interno della popolazione e viola totalmente i patti sui diritti umani di cui siamo firmatari come Paese” creando preoccupazione per “il mancato rispetto di questi diritti e libertà dati da Dio” che “indebolirà la nostra fibra sociale di armonia e coesione sociale”. Se non ci fosse stato l’infarto registrato dai medici nei documenti ufficiali sulla sua morte, Lwanga sarebbe tornato a difendere i diritti e la libertà del popolo ugandese nell’omelia di Pasqua. Il suo contenuto, infatti, è stato reso pubblico post-mortem dal vicario generale Charles Kasibante: “Mentre celebriamo la Risurrezione del nostro Signore Gesù Cristo – aveva scritto l’arcivescovo – chiediamo il rilascio incondizionato di molti giovani che sono detenuti in vari centri di prigionia senza essere portati in tribunale”.
L’improvvisa morte di Lwanga spegne una voce scomoda e coraggiosa in un Paese ‘prigioniero’ di una presidenza ultratrentennale e in cui le vessazioni ai danni delle opposizioni stanno rendendo sempre più complessa la transizione democratica. In un clima nazionale così avvelenato, non c’è da stupirsi se al decesso inaspettato di uno degli ultimi personaggi autorevolmente non asserviti si sia scatenata una girandola di sospetti ed illazioni. Lo stesso Bobi Wine, candidato sconfitto alle presidenziali dopo aver subìto arresti e pestaggi, ha parlato di “morte poco chiara che solleva interrogativi”. A tutto ciò si è aggiunta anche l’irruzione di quindici uomini armati nella residenza dell’arcivescovo avvenuta pochi giorni dopo la sua scomparsa. Nel popolo ugandese resta il ricordo di un grande pastore, talmente apprezzato da aver costretto persino il suo nemico più potente, quel Museveni che è padre-padrone della nazione dal 1986, a rendergli omaggio e proclamare una giornata di lutto nazionale.
Nico Spuntoni
5 maggio 2021