Non appena si ha una flessione nei contagi riecco la favola del patogeno che cerca di convivere con noi per non estinguersi. Smettiamola, ogni volta che ci troviamo in una fase epidemica favorevole, di ripescare sotto altri vestiti l’idea del virus che inevitabilmente si adatta per convivere con noi: la natura, come spiegò Darwin, ha zanne e artigli che grondano sangue, e non prevede nessun equilibrio, ma solo uno stato più o meno stazionario fino alla successiva catastrofe
Vi sono state ancora una volta in questi giorni dichiarazioni circa il fatto che il virus Sars-CoV-2 dovrà necessariamente evolversi in direzione benigna da un punto di vista clinico, pena la sua estinzione. Si tratta di un preconcetto duro a morire, quello secondo il quale il danno inflitto a un ospite da un parassita sarebbe svantaggioso per il parassita stesso in quanto, provocando la morte dell’ospite, diminuirebbe le sue stesse chance di sopravvivenza, un po’ come chi brucia la propria casa. E’ un pregiudizio evidentemente falso e diffuso soprattutto in ambiente medico perché, in particolare in Italia, non si studia a sufficienza l’evoluzionismo: la verità è che moltissimi parassiti, anche ben più dannosi da un punto di vista clinico di Sars-CoV-2, mantengono invariate le proprie caratteristiche patogenetiche, perché il danno inflitto all’ospite non altera in nessun modo il numero di copie che un parassita può lasciare di se stesso, le quali dipendono innanzi tutto dalla sua capacità di infettare altri ospiti prima che un soggetto contagiato sviluppi immunità o muoia.
Il virus del vaiolo, per fare un esempio, non ha cambiato la sua letalità e la sua patogenicità durante millenni di coevoluzione con l’uomo: le epidemie di vaiolo infliggevano gravi perdite in termini di mortalità alle comunità colpite, dopo di che il virus localmente diminuiva, la popolazione riprendeva e si continuava così in un ciclo durato fino all’uso dei vaccini, Lo stesso possiamo dire per i vari ceppi di Ebola emersi durante i decenni da cui questo virus è noto, per HIV, per i virus dell’epatite o per parassiti non virali come la malaria: l’equilibrio con la nostra specie di questi parassiti non ha impedito affatto il mantenimento delle gravi conseguenze cliniche dell’infezione. Guardiamo solo alla malaria, che provoca milioni di morti per la semplice ragione che anche a valori di letalità o patogenicità molto più alti di quelli di Sars-CoV-2 non si ha mai una scarsità complessiva tale di essere umani da sfavorire qualcuno dei ceppi più patogenici o più letali attualmente in circolazione.
Ciò avviene, per esempio, perché l’infezione può portare a morte in tempi così lenti da non influire apprezzabilmente sulle possibilità di trasmissione ad altri ospiti, oppure perché ci possono essere molte specie ospiti diverse, di cui solo una è l’uomo, che agiscono da rifugio fino alla locale ripresa della popolazione umana, oppure perché l’infettività è così elevata da compensare anche la rapida morte degli ospiti, oppure perché la morte sopraggiunge dopo l’età riproduttiva dell’ospite o per molti altri motivi ancora.
In sostanza, esistono moltissime condizioni in cui la morte anche massiva degli ospiti umani non influenza la trasmissibilità del parassita né la popolazione umana in maniera tale da pregiudicare la fitness del parassita stesso. A parte queste considerazioni che riguardano i parassiti che possiamo osservare, cioè quelli con cui abbiamo raggiunto una convivenza più o meno favorevole a noi (più favorevole da quando abbiamo trovato cure e profilassi vaccinali; meno favorevole per quelle popolazioni umane che non vi hanno accesso) vi è poi un bias, quello dell’osservatore sopravvissuto. E’ ovvio che tutti i parassiti che abbiamo sin qui osservato non abbiano estinto la nostra specie, perché altrimenti non saremmo qui a parlarne. Questo però non significa affatto che non esistano parassiti in grado di estinguere il proprio ospite, sia perché è sufficiente che dispongano anche di altri ospiti, sia perché le estinzioni accadono, e potrebbe aversi l’estinzione tanto di un ospite quanto di un parassita, senza che questo sia di principio proibito da qualche legge naturale. Sono casi che abbiamo potuto osservare per altre specie, quali per esempio una di lumaca di terra del genere Partula, estinta da un suo parassita: l’evoluzione naturale non ha affatto in sé un meccanismo che escluda le estinzioni, come possiamo del resto misurare dalle estinzioni che la nostra specie ha provocato, e anzi l’estinzione delle specie libera nicchie ecologiche che possono essere sfruttate da altre.
Fatte queste considerazioni, possiamo ragionare sulla nostra coesistenza futura con Sars-CoV-2. Diventerà meno rilevante clinicamente? Se, come io credo, succederà, ciò sarà dovuto al successo dei vaccini e di eventuali farmaci, come è accaduto recentemente per molte altre specie di virus, non per un’inesistente traiettoria evolutiva. In particolare, stiamo assistendo a una lezione di biologia evolutiva su larga scala: un iniziale salto di specie ha portato all’evoluzione innanzitutto di varianti più infettive (a dispetto di chi l’estate scorsa parlava già di emersione di varianti clinicamente meno rilevanti, solo perché vedeva svuotarsi gli ospedali), come ci si aspetta quando un virus ha a disposizione miliardi di ospiti e può liberamente replicarsi. Con lo svilupparsi di immunità, sia naturale sia vaccinale, è possibile che emergano varianti immunoevasive: alcune delle mutazioni sulla proteina spike, per esempio, sono già adattamenti al sistema immunitario umano, e il loro riemergere continuo e indipendente in molte parti del mondo è riprova dell’adattamento del virus al nostro sistema immune.
Se emergeranno varianti meno patogene, questo sarà un semplice accidente, perché qualche mutazione che conferisce maggiore capacità replicativa, oppure maggiore infettività oppure maggiore immunoevasività, sarà accompagnata accidentalmente da caratteristiche che per esempio diminuiscono la tempesta citochinica in risposta al virus; tuttavia questo non è un processo necessario, finché non si dimostri che qualche caratteristica che induce l’attuale patogenicità e letalità non sfavorisce replicazione, oppure infettività, oppure immunoevasività del virus che le porta.
Quanto potrà ancora mutare il virus? Non lo sappiamo, perché non conosciamo quello che si chiama lo “spazio fenotipico” a sua disposizione, cioè non conosciamo quali siano tutte le mutazioni che potrebbero emergere, le quali non siano deleterie o siano vantaggiose per il suo portatore; certamente, il fatto che alcune mutazioni appaiano in maniera ripetitiva induce a pensare che questo spazio non è infinito, e se saremo fortunati potrebbe essere sufficientemente ristretto da poter essere coperto dai vaccini di nuova generazione in sviluppo, almeno quelli che stanno prendendo di mira anche parti del virus poco soggette a mutazioni (dove appunto cioè lo spazio a disposizione per il virus è più ristretto, perché ogni mutazione è deleteria).
Per le ragioni esposte, vi prego: smettiamola, ogni volta che ci troviamo in una fase epidemica favorevole, di ripescare sotto altri vestiti l’idea del virus che inevitabilmente si adatta per convivere con noi: la natura, come spiegò Darwin, ha zanne e artigli che grondano sangue, e non prevede nessun equilibrio, ma solo uno stato più o meno stazionario fino alla successiva catastrofe.
Enrico Bucci – Il Foglio – 2 Luglio 2021