È probabile che un ulteriore richiamo sia necessario. Nel frattempo però la priorità dovrebbe essere dare la seconda dose a fette consistentissime di popolazione, tra cui soggetti a rischio clinico elevato
Anche in Italia, sulla scia della pressione esercitata da Pfizer in tal senso negli Stati Uniti, è iniziato il dibattito riguardo all’eventualità di una terza dose di vaccino per fronteggiare il calo fisiologico di anticorpi circolanti a distanza di tempo, calo che potrebbe essere alla base delle infezioni in soggetti che hanno ricevuto due dosi di vaccino. Per fare chiarezza, conviene dividere in due le argomentazioni: quelle che hanno per oggetto i dati scientifici disponibili e quelle che sono centrate intorno all’opportunità pratica di iniziare un programma di richiamo, sulla base dello stato effettivo della campagna vaccinale e di altre considerazioni.
Partiamo dal primo punto: innanzitutto, è bene ricordare la discrepanza fra i dati di reinfezione osservati in Israele e in Inghilterra da parte della variante Delta. Per Pfizer, nel primo paese si è registrato un calo di circa un terzo nella capacità di proteggere dall’infezione, mentre in Inghilterra si è osservato un calo inferiore al 10 per cento. Questi dati possono essere riconciliati fra loro se si pensa che in Israele la campagna di vaccinazione è andata avanti molto precocemente e molto velocemente, anche rispetto a un paese relativamente ben coperto come il Regno Unito; di conseguenza, in Israele esistono molti più individui che hanno fatto la seconda dose ormai da gran tempo, nei quali ci si può aspettare che il livello di “immunità sterilizzante” – cioè di anticorpi circolanti in grado di bloccare anche la semplice infezione – sia basso.
Il 15 marzo in Israele il 50 per cento della popolazione era già completamente vaccinata; in Inghilterra, alla stessa data lo era il 2,45 per cento, anche a causa dell’aumentato ritardo tra prima e seconda dose in quel paese. Al 6 luglio, il 50 per cento degli inglesi e il 60 per cento degli israeliani avevano ricevuto due dosi di vaccino; ciò evidenzia come la copertura con due dosi della popolazione vaccinata sia molto più “fresca” nel Regno Unito.
Questo, come è assodato, corrisponde in media a un titolo anticorpale neutralizzante più alto; e il decadimento di tale titolo anticorpale, specialmente in soggetti con debole risposta immune, può spiegare molti casi di reinfezione. Ecco perché Israele ha deciso di ripartire con una terza dose di vaccino per i soggetti immunocompromessi o molto a rischio. Ma quali sono le prove che una terza dose di vaccino davvero ripristini un titolo anticorpale alto? Per il momento, come hanno risposto i responsabili di tutti gli organismi federali sanitari americani ai manager e agli scienziati della Pfizer, questi dati sono pochi, anche se ci si attende che sia davvero così. In particolare, in un preprint pubblicato alla fine di giugno, per il vaccino di AstraZeneca è stato dimostrata l’immunogenicità aggiuntiva di una terza dose; per il resto, vi sono alcuni dati preliminari della stessa Pfizer e poco altro. Soprattutto, come hanno evidenziato le autorità americane, ma anche quelle europee, non esiste ancora una dimostrazione di un chiaro beneficio clinico di una terza dose, nel senso che le ospedalizzazioni e i casi gravi o letali di Covid-19, pur in presenza della variante Delta, nei vaccinati con due dosi di vaccino – Pfizer e altri – sembrano essere fortunatamente pochi, come del resto sostenuto e dimostrato dagli stessi produttori.
A questo punto, iniziano gli argomenti di opportunità. In moltissimi paesi, Stati Uniti in testa, ciò che è veramente importante in presenza di una variante ancor più infettiva delle precedenti è raggiungere con prima e seconda dose fette consistentissime della popolazione, fra cui milioni di soggetti a rischio clinico elevato, che per il momento non sono ancora vaccinati. Le dosi di vaccino e soprattutto l’impegno dei vaccinatori devono essere per loro, prima di sovrapporre all’attuale campagna una nuova campagna di richiamo; questo almeno finché non dovesse emergere, e non sembra questo il caso, che due dosi non diano protezione sufficiente da un punto di vista clinico. Nel caso delle campagne vaccinali che, in paesi avanzati, arrivano a coprire circa metà della popolazione, iniziare un iter che conduca alla terza dose, oltre a sovraccaricare la macchina della campagna vaccinale, presenta un ulteriore rischio: quello di sparare un colpo a vuoto. Se, come sembra, gli attuali vaccini proteggano dagli effetti clinici dell’infezione con le varianti in circolazione, questo non si può dire con sicurezza delle future varianti che emergeranno certamente; e se qualcuna di queste dovesse risultare davvero pericolosa, che facciamo, richiamiamo tutti per una quarta dose con un vaccino modificato? Ecco perché, alla fine, sebbene sia probabile che dovremo continuare a vaccinarci e che una terza dose arriverà, tutte le autorità sanitarie dei maggiori paesi occidentali per ora attendono, eccetto Israele, ove la campagna con Pfizer è molto avanzata, e ci si può permettere di andare avanti.
Enrico Bucci
Il Foglio
15 luglio 2021