Nel gennaio 2019 il Governo olandese ha commissionato uno studio sul suicidio assistito per «vita completata », cioè per chi vuole morire e non è malato, ma ritiene che la sua vita sia finita, non abbia più senso, e che continuare a vivere sia una sofferenza.
La ricerca è affidata al Dipartimento di Etica della cura dell’Università degli Studi umanistici, a Utrecht, in collaborazione con l’Umc Utrecht Julius Centrum. Il termine dei lavori è previsto per la fine del 2019, e dopo avere preso visione dei risultati il Parlamento olandese deciderà se estendere il suicidio assistito anche a questi casi.
Non è una novità: la domanda si pone presto, in Olanda, ben dieci anni prima dell’approvazione nel 2002 della legge sull’eutanasia, legalizzata insieme al suicidio assistito (nella sostanza si distinguono solo nella modalità di esecuzione: nell’eutanasia il medico fa l’iniezione letale, mentre nel suicidio medicalmente assistito porge al malato il bicchiere da bere con il farmaco che lo ucciderà). Nel 1991 Huibert Drion, giudice della Corte Suprema, firma un articolo sul Nrc Handelsblad nel quale afferma: «Mi sembra (…) che molte persone anziane potrebbero trovare grande conforto se potessero avere un modo per porre termine alla propria vita in modo accettabile nel momento in cui (…) sembra loro giusto». Drion propone di limitare questa possibilità a persone che vivono sole, a partire dai 75 anni. Ne segue un dibattito pubblico lungo e acceso, che si traduce nell’iniziativa «Uit Vrije Wil» (Per libera scelta) con cui nel 2010 vengono raccolte 116.871 firme per «legalizzare il suicidio assistito di persone anziane che ritengono la propria vita completata». Per ‘persone anziane’ si intendono uomini e donne di almeno 70 anni d’età.
Nel 2011 l’Associazione nazionale dei medici olandesi (Knmg) pubblica «Il ruolo del medico nella terminazione volontaria della vita», studio tutto centrato sul tema della sofferenza, compresa quella «del vivere», così definita: «Sofferenza alla prospettiva di dover continuare a vivere in un modo in cui non esiste una qualità della vita percepita, o è solo carente; un modo che dia origine a un desiderio persistente di morire, anche se l’assenza o la carenza di qualità della vita non può essere spiegata significativamente da una condizio- ne somatica o psicologica identificabile». La Knmg sottolinea che la richiesta di morire di una persona va sempre presa sul serio dal dottore, nel rispetto della legge che prevede che la sofferenza sia riconducibile a patologie: la «vita completata» è quindi esclusa. In assenza delle condizioni previste dalla legge, però, anche il medico non disponibile a procurare la morte ha il dovere di assistere il paziente che, determinato a morire, sceglie consapevolmente di smettere di mangiare e di bere. Il dibattito prosegue e nel 2014 il Ministero della Salute, del Welfare e dello Sport incarica un comitato, guidato dal professor Paul Schnabel, di «redigere un rapporto consultivo sulla portata giuridica del suicidio assistito di persone che considerano completata la propria vita, e sui dilemmi sociali intorno a tale tematica». Il lavoro del Comitato Schnabel termina agli inizi del 2016: gli esperti sono soddisfatti del funzionamento della legge sull’eutanasia e contrari a estenderne l’applicazione anche al suicidio per «vita completata». Ma nell’ottobre successivo il Governo olandese riprende la parola, e in una lettera al Parlamento respinge le raccomandazioni del Comitato Schnabel, rilanciando una propria proposta.
In corso uno studio nazionale commissionato dal Governo all’Università di Utrecht per decidere se estendere la facoltà di morire su richiesta a chi ritiene ormai senza senso la propria esistenza
Nello specifico, il ministro della Salute prende atto delle osservazioni del Comitato: gli anziani che chiedono di morire perché stanchi di vivere già lo possono fare, in gran parte, con la legge vigente, quando presentano anche «sindromi geriatriche multiple», cioè tanti acciacchi non le- tali ma pesanti, tipici dell’età avanzata, come ad esempio problemi circolatori e di movimento, sordità e cecità in vario grado, incontinenza, non autosufficienza. Situazioni riconducibili a cause mediche, quindi, che possono dare una sofferenza insopportabile e prolungata, senza rimedio, verificabile da un medico. Ma per il Governo olandese questo non basta: l’autonomia dei cittadini è un bene prioritario, «anche uno dei princìpi guida dell’attuale programma della coalizione governativa», e sarebbe a rischio se la si riconosce ‘solo’ a chi vuole suicidarsi per cause mediche. Il Governo propone quindi una nuova legge, accanto a quella già in vigore, che sia dedicata esclusivamente a questa particolare fattispecie: un suicidio assistito a chi soffre per il fatto di vivere. I requisiti dovrebbero essere un’età minima, poiché si suppone che soprattutto gli anziani possano ritenere la loro vita terminata, e una volontà libera, consapevole e persistente di morire. E poiché non serve un medico per verificare tutto questo, il ministro della Salute propone di istituire una nuova figura professionale: il consulente di fine vita. Un professionista con formazione ed esperienza in «problemi esistenziali e psico-sociali, e nella consulenza con persone in fine vita». Oltre a medici, anche infermieri e psicologi, ad esempio, per i quali sarà necessario prevedere un percorso formativo ad hoc. Di fatto si tratta di due diverse possibilità di suicidio per gli anziani: un percorso più complesso per i malati e uno facilitato per i sani, dei quali va accertata unicamente la volontà.
È l’esito del pensare quello eutanasico come un atto medico in un normale percorso di cura, un servizio dello Stato come qualunque altro
Nel dicembre del 2016 il partito D66 rende pubblica una proposta di legge, coerente con le indicazioni governative, sul suicidio assistito per «vita completata». È necessario avere almeno 75 anni e una volontà persistente di morire, e dovranno passare almeno due mesi fra la richiesta e l’attuazione del suicidio, con il consulente di fine vita che può essere un medico, un infermiere o uno psicoterapeuta, e che deve essere presente al momento del suicidio. Successivamente, la Knmg ha pubblicato un documento sul tema, estremamente critico nei confronti della proposta di governo, in accordo con numerose associazioni professionali e della società civile. Il Paese che per primo ha legalizzato l’eutanasia sta quindi per giungere al compimento logico del suo percorso: lo Stato può abbreviare la vita a un suo cittadino se questi ritiene sia arrivato il momento di morire, a suo proprio insindacabile giudizio. Il puro ‘diritto a morire’, insomma, dove quel che conta è solo la volontà di una persona di farla finita. D’altra parte, se il criterio principe è quello della autodeterminazione su tutta la propria esistenza, compreso il trapasso, per quale motivo limitarsi solo a chi è malato? E se per accedere all’eutanasia il requisito fondamentale è quello di soffrire intollerabilmente e in modo prolungato, perché includere solo i patimenti di una malattia, fisica o psichica, ed escludere la sofferenza di una vita che si ritiene senza senso? E se il motivo è esclusivamente soggettivo, come può esserlo la percezione di una esistenza senza speranza né significato, come si potrà mai prevenire questa volontà suicidaria? Quale alternativa si può dare?
La radice di questa ulteriore evoluzione della morte assistita, per chi è stanco di vivere, sta già tutta nei criteri con cui l’eutanasia entra nell’ordinamento giuridico: in presenza di una sofferenza che percepisco come intollerabile è meglio la morte, che diventa un diritto esigibile. Qualsiasi sia la fonte del soffrire. Sappiamo che ogni volta che l’eutanasia entra nell’ordinamento giuridico si trasforma in atto medico, una sorta di palliazione estrema, all’interno di un percorso di cura, senza più connotazioni negative. La morte procurata su richiesta, per stanchezza di vivere, toglie anche l’ultimo alibi: non serve neanche il dottore, basta un professionista dedicato. Come un qualsiasi altro servizio fornito dalla amministrazione statale: è sufficiente presentarsi allo sportello giusto, al funzionario apposito.
Assuntina Morresi
17 agosto 2019
Avvenire