L’industria dell’aborto vuole che non debba esserci spazio per la vergogna. I «bambini non nati e uccisi nel ventre materno» – scriveva Giuliano Ferrara lo scorso 17 settembre – vengono innalzati «come trofei di una cultura sociale che si nasconde dietro il dramma delle donne con untuosità insopportabile». Eppure le donne che hanno abortito, inclusa Thurman, ammettono di provare vergogna, anche quando nessun altro sa del loro gesto. «C’è così tanto dolore in questa storia», ha messo nero su bianco l’attrice.
«Ho abortito a 15 anni, il Texas sbaglia» (La Stampa); «Uma Thurman contro la legge sull’aborto in Texas: “A 15 anni incinta, ho deciso di non tenerlo”» (Io Donna); «Uma Thurman confessa il suo aborto (e condanna la nuova legge del Texas)» (Vogue); «Uma Thurman: “Ho abortito da adolescente, la decisione più difficile della mia vita”. Una confessione per dire no alla legge antiabortista del Texas» (La Repubblica). Sono solo alcuni dei titoli che in Italia (ma nel resto del mondo è lo stesso) hanno accompagnato l’editoriale del Washington Post in cui la star hollywoodiana ha ricordato la sua esperienza con l’aborto.
Ad una lettura solo un poco più attenta, la confessione dell’attrice si rivela come un classico esempio di eterogenesi dei fini: nulla di ciò che Uma Thurman racconta di sé prova minimamente che l’aborto sia un beneficio per le donne. Anzi, pur nella cecità dei media internazionali, ogni sua parola ha finito per sottolineare l’esatto contrario. Chi lo ha notato con particolare acume è stata Nancy Flanders, redattrice di Live Action News, madre di quattro figli e collaboratrice di Heartbeat International, la più grande rete a favore della maternità degli Stati Uniti, con cliniche, case di accoglienza per mamme in difficoltà e agenzie di adozione. A differenza di chi scrive da comode redazioni costantemente in “modalità echo chamber”, una donna che conosce il tema vita dal di dentro. La sua esegesi sul privatissimo editoriale della protagonista di Pulp Fictione ha svelato molte cose.
«Il mio cuore era spezzato».
Il primo particolare che salta all’occhio è che Uma Thurman, malgrado la giovane età, voleva «tenere il bambino». Non senza una certa dose di tenerezza, l’attrice ha raccontato di aver fatto ciò che farebbe la maggior parte delle adolescenti nelle stesse condizioni: chiamare i genitori. «Chiamai casa.
[…] Mi avvertirono su quanto sarebbe stato difficile crescere da sola un bambino», così «la mia fantasia infantile di maternità fu sonoramente corretta», decidendo «come famiglia che non potevo andare avanti con la gravidanza […]. Il mio cuore era comunque spezzato».Traducendo queste parole e trascinandole fuori da ogni palude culturalconformista, si arriva alla conclusione lucida e secca di Nancy Flanders:
«Thurman voleva tenere il suo bambino ma i suoi genitori l’hanno esortata a non farlo, senza offrire alcun supporto alla figlia e al nipote. Poche adolescenti si sentirebbero abbastanza sicure da portare a termine una gravidanza se i propri genitori dicessero loro che dovrebbero farlo completamente da soli». Due dati che da soli fanno crollare i titoli di decine di riviste patinate: uno, l’attrice non ha scelto volontariamente di abortire; due, ammette che abortire il figlio è qualcosa che le ha letteralmente «spezzato il cuore» (in un altro punto dell’editoriale ammetterà anche di non essersi mai ripresa da quel dolore, nemmeno a cinquantun anni). Il resto è retorica abortista e “giornalismo collettivo”.
LO STUPRO e i “facilitatori” di Planned Parenthood
Non è chiaro se Thurman sia stata vittima di stupro o se abbia acconsentito a fare sesso con «un uomo molto più anziano» (così sul WP), sta di fatto che il Texas Heartbeat Act (la legge a difesa del cuore battente che ha scatenato l’ira di Biden) non include un’eccezione per lo stupro, elemento questo che infiamma i pro-choice. Anche qui, avendo il coraggio di andare in fondo alle cose, va detto che la preoccupazione di molti abortisti sembra essere più quella di garantire l’aborto di un bambino, piuttosto che quella di fermare, imprigionandoli, gli autori delle aggressioni. La prova la fornisce Nancy Flanders nel suo pezzo, quando ricorda che Planned Parenthood dovrebbe essere legalmente «responsabile della segnalazione anche di sospetti abusi che includono gravidanze di un minore», mentre invece «ha ripetutamente preso soldi per aborti restituendo le vittime ai loro abusatori, permettendo quindi che i primi subissero ulteriori abusi». Documenti giudiziari, testimonianze e indagini sotto copertura testimonierebbero che Planned Parenthood abbia spesso evitato di denunciare gli abusi, anche su minori, comportandosi di fatto come un «facilitatore di abusi sessuali».
Garrone e quella confessione “definitiva”
Quanto poi all’idea secondo cui la madre che ha di fronte il bambino frutto di uno stupro sarebbe continuamente costretta a ripensare alla violenza subita
(da lì il diritto della donna eliminare quell’“ulteriore sofferenza”) è utile ricordare il saggio e lapidario ammonimento di san Giovanni Paolo nel contesto degli stupri (anche di suore) della guerra di Bosnia: «non aggiungete violenza a violenza». Alle supposizioni della vulgata ci piace anche citare un aneddoto legato a Giuseppe Garrone, l’ideatore delle “Culle per la Vita” scomparso nel 2011. È lo stesso pro-life piemontese a ricordare le commosse parole di una donna, con accanto la figlia sedicenne, ascoltate al termine di una sua conferenza sull’aborto: «La ringrazio per quello che ha detto, ha proprio ragione, guardi: questa è figlia di una violenza ed è stato un regalo immenso per la mia vita, poiché è lei che mi ha attenuato il brutto ricordo. Davvero quel ricordo si è trasformato in vita”».
«Mi ha causato angoscia e tristezza»
L’industria dell’aborto vuole che non debba esserci spazio per la vergogna. I «bambini non nati e uccisi nel ventre materno» – scriveva Giuliano Ferrara lo scorso 17 settembre – vengono innalzati «come trofei di una cultura sociale che si nasconde dietro il dramma delle donne con untuosità insopportabile». Eppure le donne che hanno abortito, inclusa Thurman, ammettono di provare vergogna, anche quando nessun altro sa del loro gesto. «C’è così tanto dolore in questa storia», ha messo nero su bianco l’attrice. Che ha continuato così:
«Finora è stato il mio segreto più oscuro. L’aborto che ho avuto da adolescente è stata la decisione più difficile della mia vita, quella che mi ha causato angoscia allora e che mi rattrista anche adesso, ma è stato il percorso verso una vita piena di gioia e amore che ho vissuto. La scelta di non mantenere quella gravidanza precoce mi ha permesso di crescere e diventare la madre che volevo e dovevo essere». Anche qui c’è da notare un interessante e freudiano salto logico e assiologico. Come ha sottolineato da Daniel Payne su Not the Bee, Thurman si riferisce ovviamente a suo figlio quando sul WP scrive «Volevo tenere il bambino». Quando invece, a distanza di un capoverso o poco più, arriva a descrivere la sua decisione, la parola
«bambino» viene sostituita da un eufemismo, così l’attrice sceglie di «non terminare quella gravidanza precoce». Un chiaro tentativo di seppellire semanticamente la verità, anche da se stessa: quel giorno a «terminare» è stata la vita del suo bimbo, non la gravidanza. Senza contare che troppe donne – fa notare Nancy Flanders – «non hanno idea di come sarebbero state le loro vite se non avessero abortito»; non avranno mai modo di sapere «quanto sarebbero state immensamente più belle le loro vite se avessero permesso la nascita anche degli altri loro figli».
«Mani bellissime» e compassione
Nell’editoriale rimbalzato in tutto il mondo, Uma Thurman parla infine del medico che la incontrò. Aveva appena posto fine alla vita del suo bambino e lei lo descrive come un uomo che le ha mostrato un «gesto di umanità». Ecco quale: «Quando la procedura è stata completata, il dottore mi ha guardato e mi ha detto: “Hai delle mani bellissime, mi ricordi mia figlia”. Quel singolo gesto di umanità è impresso nella mia mente come uno dei momenti più compassionevoli che abbia mai vissuto». Al netto di contingenze capaci di obnubilare il reale anche a distanza di trent’anni, in questo passaggio della confessione risulta autoevidente quanto il concetto di compassione si sia relativizzato a dismisura, finendo per pervertirsi. Chiosa la giornalista di Live
Action Nancy Flanders: «Pochi istanti prima quest’uomo aveva ignorato l’umanità del bambino avente già un cuore pulsante e onde cerebrali, e che al momento della sua morte era probabilmente in grado di muovere le braccia e le gambe». È reale compassione? È vera umanità? Qualcuno forse non sarebbe d’accordo. Per esempio Heidi Crowter, la 26enne con la sindrome di Down che ha appena perso un ricorso davanti all’Alta corte di Londra riguardante la legge abortiva estrema che mira a sopprimere persone con la sua stessa sindrome.
Femministe assenti
Sta di fatto che la tragedia non è la legge texana che tanti bambini sta salvando anche in queste ore, ma che alla brava e bella protagonista di Kill Bill sia stata negata l’opportunità di essere una madre per il suo bambino. Dallo sfogo della pupilla di Quentin Tarantino, un giornalismo serio ricaverebbe esattamente il contrario di ciò che è stato incorniciato da titoli e sottotitoli di mezzo mondo: «A lei e a suo figlio – conclude la Flanders – è stata negata la possibilità di esprimere il proprio potenziale e dimostrare che le donne non hanno bisogno dell’aborto per avere successo».
Valerio Pece
Il Timone
25 Settembre 2021