Per l’Alta Corte di Londra la legge che autorizza l’aborto fino alla nascita dei disabili, come Heidi Crowter o il piccolo Aiden, non li discrimina. Impedire alle donne di scartarli fino all’ultimo sì
Nel Regno Unito gli unici che si possono discriminare sono i down. Lo ha deciso l’Alta Corte di Londra il 23 settembre con una sentenza che non lascia spazio all’interpretazione: secondo i giudici che hanno accolto la richiesta di riesame giudiziario dell’attuale normativa che consente ai genitori di abortire fino alla nascita nel caso il bambino abbia la trisomia, la legge non è discriminatoria e non viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In altre parole uccidere i bambini in ogni momento della gravidanza solo perché hanno la sindrome di Down non li discrimina. Bambini come Heidi Crowter, la giovane attivista 26enne che aveva portato il caso al tribunale inglese prendendola dal verso giusto e inattaccabile: senza discutere il diritto alla libera scelta, bensì della discriminazione, in una società che ha fatto della disabilità una bandiera dell’equità e dell’uguaglianza, avallata da una legge che trova «normale che un bambino con la sindrome di Down venga ucciso appena prima di nascere. Una legge ingiusta. Mi fa sentire come se non dovessi esistere, come se avessi dovuto morire». La stessa denuncia di Máire Lea-Wilson, mamma Aiden. Un piccolo nato a giugno del 2019 che per tre volte i medici si sono offerti di farle abortire. Lea-Wilson era alla 34esima settimana quando in ospedale i medici iniziano a ripeterle che quel bambino «avrebbe reso le nostre vite un calvario».
Femmine no, bimbi con sindrome di Down sì
Nel Regno Unito l’aborto è legale fino alla 24esima settimana, tranne quando il proseguimento della gravidanza è pericoloso per la salute fisica o mentale della madre, o nei casi in cui il bambino «soffre di anomalie fisiche o mentali, o è gravemente handicappato». Nel 2020 ci sono stati 3.083 aborti di disabili, 693 dopo una diagnosi di trisomia 21 (nel 2019 erano 656). «Credo che una legge che differenzia il limite di tempo per interrompere una gravidanza in base alla disabilità permetta il prevalere di una narrazione in cui i disabili sono considerati inferiori e un peso per la loro famiglia e la società»: quanta verità nella parole di Lea-Wilson.
Quando lo scorso maggio il biologo Richard Dawkin, conversando con il presentatore di RTE Brendan O’Connor (che gli chiedeva conto delle sue ormai famose e orrende dichiarazioni del 2014) ribadì che è «saggio e ragionevole» abortire i bambini down per diminuire le sofferenze del mondo, ci fu una grande sommossa. Eppure lo scienziato, capace di affermazioni orrende quali «un feto è meno umano di un maiale adulto», aveva chiaramente espresso il pensiero di chi, in tutta Europa e in guanti di velluto, avalla il controllo di qualità e la selezione dei nascituri in base ai geni. Una faccenda che non merita la crociata partita proprio dal Regno Unito per non spianare la strada all’aborto selettivo delle bambine attraverso i test di diagnosi prenatale (Nipt– Non-Invasive Prenatal Test).
La domanda di Crowter e Lea-Wilson alla Corte era semplice: come si fa a proclamare equità e uguaglianza se si fissa un limite di 24 settimane, cioè quando un feto è vitale fuori dal grembo materno, per non abortire un bambino sano, mentre non esiste un limite o una protezione per un bambino disabile? «Tollereremmo questa disuguaglianza se sostituissimo la disabilità con un’altra caratteristica protetta come il genere?».
Buttare il bambino per non discriminare le donne
Ora i giornali titolano che “la donna con la sindrome di Down ha perso la sfida all’Alta Corte”, i giudici sottolineano che la legge va bene perché trova un equilibrio tra i diritti del nascituro e quelli delle donne. Sentite qui: «Sono state presentate prove importanti davanti a questo tribunale di famiglie che forniscono un ambiente amorevole ai bambini nati con gravi disabilità, ma non sappiamo cosa accadrebbe, in un contesto diverso, in cui le donne siano costrette dalla legge dare alla luce bambini che non saranno amati o voluti»: in pratica la richiesta di Crowter porterebbe a discriminare e vedere «ridotto» il margine di scelta di donne che non la pensano come lei. Nonché a far nascere bambini che se non sono voluti è meglio che non nascano affatto. Che c’è di diverso dalle argomentazioni di Dawkins quando afferma che la nascita dei bambini disabili aumenta l’infelicità del mondo? Quanto ai limiti per abortire, siccome la scienza non sempre identifica i portatori della sindrome di Down a tempo debito, non c’è nulla di discriminatorio nel discriminarli e levare loro le “protezioni” accordate a partire dalla 24esima settimana a chi non presenta alcuna anomalia.
«Non è finita» ha detto Crowter uscendo dalla Royal Courts e promettendo di appellarsi alla sentenza. «Andò avanti, voglio riuscire a cambiare la legge per impedire ai bambini come me … di essere abortiti fino alla nascita, perché è una vera e propria discriminazione». Una discriminazione resa ancora più evidente dalla sentenza della corte: tra donne e disabili, vanno tutelate le prime. «Non mi arrendo, facciamolo».
Gli unici che si possono discriminare sono i Down. Lo ha deciso il Regno Unito