Cadono uno dopo l’altro i bastioni che la fede occupava nella società. Sono due le strade per uscire dalla crisi: resistere chiusi nel fortino o sfidare la triste realtà
Il francese Adrien Candiard e l’americano Rod Dreher offrono due soluzioni opposte al medesimo problema. Tesi del tutto inconciliabili. Le parole del Papa
Nel suo viaggio in Slovacchia, Papa Francesco ha avvertito che il rischio maggiore dei cristiani oggi è quello di guardare al passato, di volgere lo sguardo all’indietro. Parlando con la florida comunità gesuita locale ha detto che “la sofferenza della Chiesa in questo momento è la tentazione di tornare indietro. Stiamo soffrendo questo oggi nella Chiesa: l’ideologia del tornare indietro. E’ un’ideologia che colonizza le menti”. Il problema, ha aggiunto, è che “la libertà ci fa paura”. Dunque, “per questo oggi si torna al passato: per cercare sicurezze”. Davanti al crollo delle evidenze nel mondo occidentale e soprattutto in Europa, si è spesso tentati dall’ancorarsi al ricordo dei tempi andati, rimpiangendo l’epoca della cristianità trionfante, delle adunate di massa, dei pellegrinaggi affollati e delle chiese piene di fedeli oranti. La scomparsa di tutto questo ha generato una sorta di choc in chi era abituato a un certo mondo.
Lo nota bene Adrien Candiard, il non ancora quarantenne domenicano francese da tempo residente al Cairo, nel suo ultimo libro La speranza non è ottimismo. Note di fiducia per cristiani disorientati (Emi): siamo davanti a un’evoluzione che “lascia in molte persone anziane, quando scoprono che non avranno le stesse esequie dei loro genitori, un sentimento crepuscolare. Il parroco del paese era stato una figura familiare per secoli; nel giro di una generazione, un gran numero di nostri concittadini non conosce un solo sacerdote e non ne incontra quasi mai”. Per sfuggire al calar delle tenebre, le alternative sono due: o si “guarda la notte così come si presenta”, per dirla con Candiard, o ci si chiude in fortini, comunità dove assicurare la trasmissione della fede nell’attesa di tempi migliori. Moderne arche di Noè, insomma. Rod Dreher, scrittore americano, l’ha teorizzato nel suo L’opzione Benedetto (san Paolo editore), definito “il più importante libro a tema religioso del decennio” da David Brooks sul New York Times e che ha fatto parecchio discutere su entrambe le sponde dell’oceano. La tesi di Dreher è che, immersi come sono in un mondo ostile, ai cristiani convenga fare come i monaci dei primi secoli: ritirarsi in un mondo (ma non dal mondo) devastato dal paganesimo e dalle invasioni barbariche e custodire la fede. Tramandandola, avendo sempre in mente quel quaerere Deum che ricordò Benedetto XVI nel suo magistrale discorso al Collège des Bernardins di Parigi. Per Dreher, che ha vissuto in prima linea decenni di aspre battaglie in terra americana, è ora di abbassare le armi: “Potrebbe darsi il caso che il modo migliore di combattere il diluvio sia smettere di combatterlo? Ovvero, cessare di impilare sacchi di sabbia e costruire invece un’arca in cui rifugiarsi, finché l’acqua receda e possiamo rimettere piede sulla terraferma? Piuttosto che perdere tempo e risorse combattendo battaglie politiche impossibili da vincere, dovremmo invece lavorare alla costruzione di comunità, istituzioni e reti di resistenza che possano essere più intelligenti e durature e, alla fine, togliere l’occupazione”, scriveva nel suo bestseller.
Candiard e Dreher (e le loro tesi) rappresentano i due poli opposti del problema. Anche nel suo ultimo libro La resistenza dei cristiani (Giubilei Regnani), lo scrittore americano riprende il filo del precedente. Usa le testimonianze di chi visse sotto il regime comunista, nell’Europa orientale, per cercare risposte su come affrontare la “manipolazione dell’identità” visibile oggi nella realtà liberale. La ricetta, ripete, è una sola: mantenere viva la memoria, che significa “combattere l’ordine dominante”. Sotto ai nostri occhi è in atto il tentativo – sostiene – di riscrivere la storia attraverso la deriva del politicamente corretto e “la cosiddetta cancel culture”. Il pensiero di Dreher torna alle nuove generazioni: come “salvarle”? Come preservarle dal nuovo modello imperante e assimilane? Risposta: edificare tante “roccaforti della memoria” identificate in via primaria dalla religione e dalla famiglia tradizionale.
Candiard condivide le premesse, scrive che ormai nascono “interrogativi senza fine, e sempre più inquietanti, sulla nostra identità. Quando arriviamo a domandarci chi siamo, è segno che la crisi è già molto avanzata”. Il cristianesimo sta ormai fuoriuscendo “a tutta velocità dalla cultura comune”, in Francia nel 2015 l’Associazione nazionale dei sindaci ha addirittura promosso un vademecum di “buona condotta laica”. In sostanza, aggiunge il domenicano, “il cristiano assiste impotente alla caduta, l’uno dopo l’altro, di tutti i bastioni che la sua fede occupava nella società”. Dopotutto è un quadro evidente. Come reagire? Per Dreher, bisogna chiudersi nella ridotta, intanto in famiglia, dove “è radicato un solido modello di resistenza antitotalitaria”. Scrive: “La nostra causa sembra persa… ma siamo ancora qui! Ora la nostra missione è quella di costruire la resistenza sotterranea che si opponga all’occupazione totalitaristica, per mantenere viva la memoria di quel che eravamo e di ciò che siamo, e per rinvigorire le fiamme del desiderio per il vero Dio. Dove c’è memoria e desiderio, c’è speranza”. Niente di nuovo, dopotutto: in tanti contesti di persecuzione, in tempi antichi e a noi più prossimi, la fede è stata trasmessa proprio così. In famiglia, di padre in figlio e di nonno in nipote, nel chiuso di una cucina o d’una camera. In Giappone, nella Cina comunista (ancora oggi), nell’est europeo finché la Cortina faceva il suo dovere. Perché la persecuzione non è solo quella brutale, ma anche quella più “dolce”, praticata in guanti bianchi.
Il punto-chiave è, però, quello di intendersi su cosa sia la “speranza” che fa da base al ragionamento di Rod Dreher. Forse è proprio il significato assegnato a quella virtù cristiana l’elemento che pone agli antipodi le due prospettive per affrontare la crisi. Georges Bernanos scriveva che la speranza “è un atto eroico di cui i codardi e gli stupidi non sono capaci; per loro è l’illusione a tenere il posto della speranza”. Spesso, la speranza è fraintesa con l’ottimismo in un futuro migliore. Candiard osserva che il problema è che si confonde troppo spesso la speranza (quella vera) con le speranze umane: “Per difendere l’autentica speranza, Geremia non ha cessato di subire le persecuzioni di coloro che se ne facevano i campioni, di quanti dicevano ‘Non abbiate paura, andrà tutto bene!’ mentre il profeta annunciava disgrazie su disgrazie. La speranza cristiana non richiede ottimismo, richiede coraggio. Bisogna accettare di rinunciare all’illusione, alle false speranze, a tutte le false speranze”. Il che, ovviamente, “è una rinuncia particolarmente dolorosa”.
Francesco, appena messo piede a Bratislava, ha detto che “la Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza”. “La Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo”. “Ecco – ha aggiunto il Papa – è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! Il centro della Chiesa non è se stessa. Usciamo dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le nostre strutture, per come la società ci guarda. E questo alla fine ci porterà a una ‘teologia del trucco’… Come ci trucchiamo meglio… Immergiamoci invece nella vita reale, la vita reale della gente”.
Niente fortini o arroccamenti, dunque, come del resto aveva già detto in modo chiaro ai vescovi statunitensi riuniti nella cattedrale di San Matteo a Washington, sei anni fa. La soluzione, oggi, non può essere la catacomba, anche se dotata di ogni comfort: “L’evangelizzazione non è mai una semplice ripetizione del passato. La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse”. Quanto alla “resistenza” davanti al mondo che i cristiani non li capisce più, forse – ha detto il Pontefice – “il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa” è quello di “trovare nuovi ‘alfabeti’ per annunciare la fede”: “Abbiamo sullo sfondo una ricca tradizione cristiana, ma per la vita di molte persone, oggi, essa rimane nel ricordo di un passato che non parla più e che non orienta più le scelte dell’esistenza. Dinanzi allo smarrimento del senso di Dio e della gioia della fede non giova lamentarsi, trincerarsi in un cattolicesimo difensivo, giudicare e accusare il mondo cattivo, no, serve la creatività del Vangelo”. Di più: scrive Candiard che “l’incomprensibile spoliazione degli abiti trionfali del cristianesimo in occidente ci indica certamente che siamo chiamati ad accettare la medesima purificazione radicale, dolorosa e necessaria, per riporre la nostra speranza in Dio. Al contrario di tanti che ci hanno preceduto, che potevano essere accecati dai successi della fede, noi non abbiamo più grande scelta tra la disperazione davanti alla catastrofe o la speranza in Dio”. Dopotutto, chiosa, “l’unica promessa che Dio fa a Geremia non è il trionfo o la riuscita. E’ la promessa della sua presenza”. Pensare infatti di “ritrovare il passato, un passato peraltro amabilmente idealizzato, è evidentemente illusorio”: una “illusione mortifera”. E’ la chiamata a vivere il presente, non a scappare. Aggiunge Candiard che “quello che è chiamato in causa non è il dibattito storico, ma l’amore per il reale. I ricordi sono forse più dolci, ma non avranno mai il gusto della realtà, il sapore dell’unico mondo che ci è dato. Non si spera nel passato, si può sperare unicamente nell’avvenire”. E poi, “niente è meno cristiano che continuare a stringere tra le braccia il cadavere della vecchia cristianità: lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti, e guardiamo il mondo in faccia”.
Candiard contesta alla radice la posizione di Dreher, pur senza mai nominarlo: dato il contesto, scrive, “è quasi naturale volersi costruire delle piccole arche di Noè in cui vivere tra noi, tra cattolici che condividono gli stessi valori, al riparo dalle nefandezze del mondo, senza avere più altro da dire a questo mondo se non il nostro disprezzo per i valori che lo fanno girare”. Si tratta di una “opzione di resistenza al mondo, di ultimo bastione da difendere a ogni costo, tra cristiani ben motivati”. Ma può bastare? Non è che isolandosi, in questo mondo culturalmente post cristiano, si finisce per divenire minoranza tra le minoranze e di certo non minoranza creativa? Dreher, nel suo ultimo libro, sostiene che i cristiani minoranza lo sono già, si tratta di prenderne atto. E che davanti a quanto sta accadendo in America, dove “una militanza progressista e profondamente anticristiana ha iniziato a prendere il controllo della società” non ci sia altra strada che avere il pieno controllo della propria vita spirituale. Dreher si rifà ad Aleksandr Solgenitsin e vede nel suo celebre appello al popolo russo, pubblicato poco prima di essere espulso dal regime sovietico, la bussola per orientare l’azione: “Vivere senza menzogna!”, urlava il grande intellettuale autore di Arcipelago gulag. Vivere senza menzogna – dice oggi lo scrittore americano – per vincere la battaglia contro “l’imminente totalitarismo di tipo moderato”.
La visione di Francesco è agli antipodi: la “sua” Chiesa non rivendica spazi né ingaggia lotte disperate contro un mondo crudele che non comprende i cristiani, laddove sono ancora numericamente rilevanti e attivi. Bergoglio non va alla guerra contro il mondo né la vuole. Parlando al Congresso degli Stati Uniti, nel settembre del 2015, disse che “c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi. Sappiamo che nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno”. Un anno prima, ricevendo in Vaticano i vescovi consacrati in quei mesi, aveva espresso il medesimo concetto, con un lessico più adatto alla platea clericale convenuta: “Per abitare pienamente nelle vostre chiese è necessario abitare sempre in Lui e da Lui non scappare: dimorare nella sua Parola, nella sua Eucaristia, nelle ‘cose del Padre suo’, e soprattutto nella sua croce. Non fermarsi di passaggio, ma lungamente soggiornare! Come inestinguibile rimane accesa la lampada del tabernacolo delle vostre maestose cattedrali o umili cappelle, così nel vostro sguardo il gregge non manchi di incontrare la fiamma del Risorto. Pertanto, non vescovi spenti o pessimisti, che, poggiati solo su sé stessi e quindi arresi all’oscurità del mondo o rassegnati all’apparente sconfitta del bene, ormai invano gridano che il fortino è assalito. La vostra vocazione non è di essere guardiani di una massa fallita, ma custodi dell’Evangelii gaudium, e pertanto non potete essere privi dell’unica ricchezza che veramente abbiamo da donare e che il mondo non può dare a sé stesso: la gioia dell’amore di Dio”.
Non sono, quelle di Candiard e Dreher, solo elucubrazioni teoriche, piani organizzati per ridare forma e sostanza a un popolo disperso. La frattura che divide la Chiesa oggi, non ovunque in modo uniforme, è spiegata anche dalla distanza abissale che c’è tra i due approcci. Da una parte, come s’è visto, il riferimento a Geremia, all’accettazione del fatto che a essere finita (probabilmente per sempre) è la cristianità, non il cristianesimo. Dall’altra, la ricerca di un modo per sopravvivere – per dirla con Benedetto XVI, e Rod Dreher lo cita – all’assalto di quella che viene definita la “dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche” che ormai permeano il discorso pubblico in tutto l’occidente. Strade opposte, soluzioni antitetiche al medesimo problema. Il tempo dirà chi ha scelto il percorso giusto.
Matteo Matzuzzi
Il Foglio
3 Ottobre 2021