Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto clinico Humanitas e presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca, in Italia l’indice Rt è stabile allo 0,83 e l’incidenza dei casi è in diminuzione: 34 ogni 100 mila abitanti. La fine della pandemia è vicina?
«Vediamo chiaramente la luce in fondo al tunnel, ma con la pandemia dovremo convivere ancora a lungo. In Africa solo 4 persone su 100 hanno ricevuto il ciclo completo della vaccinazione. In Italia siamo all’80%. C’è molta preoccupazione per i Paesi a basso reddito, perché non basta far arrivare le dosi, servono anche le strutture e le competenze per poterle somministrare. Ci sono stati casi di vaccini rimasti inutilizzati e scaduti. Aiutare i Paesi più indietro, con progetti a medio-lungo termine non solo legati a Covid-19, non significa dover rinunciare a qualcosa. I muscoli li abbiamo, servono un po’ più di testa e cuore. È assurdo che l’Africa debba dipendere quasi totalmente da altri dal punto di vista sanitario.
E non è solo un problema morale: per sentirci davvero tranquilli, anche sulla nascita di nuove varianti del coronavirus, serve mettere in sicurezza quelle aree in cui le vaccinazioni procedono con una lentezza inaccettabile. Per esempio la variante Mu si sta diffondendo in Perù, dove il 32% della popolazione è vaccinato con due dosi».
Parliamo della situazione italiana. Quali sono gli strumenti per percorrere questo ultimo tratto del tunnel senza sbandamenti?
«Vaccinare tutta la popolazione, inclusi i guariti, dai 12 anni in su, individuare i positivi con l’attività di testing e tracciare i contatti. Ma non basta: se il vaccino è la patente e i tamponi sono la cintura di sicurezza, serve comunque un guidatore prudente. Questo significa, fuor di metafora, rispettare le norme di prevenzione nei luoghi chiusi, a partire dall’uso della mascherina. Nel Regno Unito, per esempio, è in atto un’intensa attività di testing, con dispositivi dati gratuitamente ai cittadini ogni settimana per fare autodiagnosi, ma poi in metropolitana è frequente vedere persone con naso e bocca scoperti. Il senso di responsabilità individuale in questa fase è ancora decisivo».
C’è stata un’evoluzione nei test, tamponi e sierologici?
«Sì, per gli antigenici (o rapidi) si è già arrivati alla terza generazione. Siamo invece indietro sugli esami per valutare la risposta immunitaria: i sierologici ne valutano solo una piccola parte e i test sui linfociti T (cellule di memoria) sono ancora appannaggio di pochi laboratori. Inoltre non abbiamo ancora esami che possano predire il rischio di gravità della malattia, fondamentali per dare al singolo paziente la terapia più efficace nel momento giusto, anche se noi stessi abbiamo risultati promettenti su questa linea».
Anche per Covid-19 sarà possibile mettere in atto la medicina personalizzata?
«È in atto un grosso sforzo internazionale per definire le caratteristiche genetiche predittive di un alto rischio di ospedalizzazione o morte nei pazienti. Un lavoro importante anche per individuare nuovi bersagli terapeutici».
Il probabile arrivo di farmaci antivirali rappresenta una «rivoluzione»?
«Tutti speriamo di avere a disposizione un giorno farmaci attivi come quelli anti-Hiv. Per ora sappiamo che il medicinale prodotto da Merck, molnupiravir (non ancora approvato dalle agenzie regolatorie), è efficace al 50% contro ricoveri e decessi. Se confermato, sarebbe un dato entusiasmante. Il farmaco, che agisce mandando in tilt il programma genetico del virus, però ha fallito nelle fasi avanzate: la stessa azienda ha affermato che va somministrato in presenza di conclamata positività ed entro 5 giorni dall’inizio dei sintomi. Altre molecole antivirali sono allo studio, basate su meccanismi diversi: per esempio l’inibizione di un enzima che ha il compito di far entrare il virus nelle cellule. I progressi nelle terapie Covid-19 sono stati enormi: abbiamo visto l’utilità di eparina, cortisone. Si può usare il remdesivir, nonostante i limiti di efficacia e gestione. Alcuni farmaci che bloccano le citochine sono all’esame delle agenzie regolatorie o già approvati. Molte altre ipotesi terapeutiche sono state prese in considerazione e poi scartate, perché inutili o addirittura dannose. Ci sono buone notizie sugli anticorpi monoclonali: secondo uno studio inglese, possono essere efficaci anche in una fase avanzata della malattia e non solo all’inizio dell’infezione, ma sempre rispettando finestre temporali precise. Bene dunque i progressi sulle cure, ma senza dimenticare una questione tanto semplice quanto fondamentale: i vaccini costano molto meno, anche in termini di vite umane, dato che difendono a monte dalla malattia. Avere nuovi farmaci non significa rinunciare a utilizzare i vaccini».
È importante immunizzare anche i bambini, inclusi gli under 12 quando sarà possibile?
«Sì, per diversi motivi. Il primo è che i minori, seppure raramente, si ammalano di Covid-19. Lo vediamo soprattutto in Paesi che non hanno una sanità avanzata come la nostra. Inoltre, dopo l’infezione, possono sviluppare la cosiddetta Mis-C (sindrome infiammatoria multisistemica), una patologia grave che spesso richiede il ricovero in terapia intensiva. Infine il Long Covid, seppur difficile da stimare, riguarda anche i piccoli: si calcola che un bambino guarito su sette abbia problemi anche a distanza di 15 settimane. Alcuni disturbi postumi, come per esempio quelli renali, non sembrerebbero correlati alla gravità, quindi possono riguardare persone che hanno avuto forme asintomatiche. D’altro canto, il rischio di sviluppare miocarditi o pericarditi dopo la somministrazione di un vaccino a mRna è raro: parliamo di un evento che si risolve in pochi giorni con un trattamento antinfiammatorio e che non ha causato decessi. C’è infine una questione non strettamente sanitaria: come ha sottolineato il pediatra Andrea Biondi, il vero dramma per i bambini è stare chiusi in casa. Dobbiamo fare ogni sforzo possibile per difendere la scuola in presenza».
Laura Cuppini
Corriere della Sera
11 Ottobre 2021