MORTE. UNA RIFLESSIONE DIFFICILE MA INDISPENSABILE PER VIVERE BENE. La morte nella cultura contemporanea (1)

By 29 Ottobre 2021Pillole di saggezza

La morte nella cultura contemporanea

La nascita, la crescita e la morte formano un trinomio inscindibile essendo momenti costitutivi della persona che dovrebbe acquisire sia “l’ars vivendi” che “l’ars moriendi” così descritta dal teologo Henri Nouwen: “La gente muore. Non solo i pochi che conosco, ma innumerevoli persone, ovunque, ogni giorno, ogni ora. Morire è l’evento umano più naturale, qualcosa che tutti dobbiamo sperimentare. Ma moriamo bene? La nostra morte è qualcosa di più di un destino inevitabile, qualcosa che semplicemente non vorremmo esistesse. Ma può diventare in qualche modo l’atto di una realizzazione, forse più umana di ogni altro atto umano” (Il dono del compimento, Queriniana, pg. 12), poichè quando l’uomo “non sa più guardare alla propria morte, mettendosi in rapporto con ciò che giace oltre lo spazio e il tempo della sua esistenza, perde il desiderio di creare e l’eccitazione di essere uomo” (Il guaritore ferito, Queriniana, pg. 18).

 Ebbene, la morte, dovrebbe costituire un passaggio eloquente per ogni uomo.   

Eppure della morte, un appuntamento che attende tutti, è arduo parlarne: rammenta la precarietà e la provvisorietà, incute paura, provoca terrore, suscita pudori non essendo potenzialmente controllabile. Jean Baudrillard, filosofo e sociologo francese, affermava: “Al giorno d’oggi non è normale essere morti (…). Essere morti è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile” (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, pg. 89).

Inoltre, il contesto societario, non consente di trattare il tema come ogni altro argomento dell’esistenza, o meglio di recepire la morte come il naturale compimento della persona; perciò si muore peggio che in passato. Da avvenimento biologico e naturale, da “sorella” con la quale convivere, è trasformata in nemico da combattere, mostro da esorcizzare, evento da negare, anche se poi, in alcune circostanze, invade le televisioni e i giornali, ed è presentata nei talk show come spettacolarizzazione banalizzata dove la riverenza sparisce, oppure nei film dove è assente ogni coinvolgimento personale e reazione emotiva.

La morte è dunque il tabù degli ultimi decenni del XX secolo e dei primi del XXI. “L’antico divieto sociale di parlare di sesso e di funzioni genitali si è oggi spostato sulla morte e sui morti, tanto che l’antropologi inglese Geoffrey Gorer parla di ‘pornografia della morte’ (The Pornography of death, è il titolo della sua opera)”. Concetto ripreso anche dallo storico Philippe Ariès: “oggi sembra che ci si vergogni a parlare di morte, come una volta ci si vergognava a parlare di sesso e dei suoi piaceri” (Storia della morte in occidente, Bur, pg. 41).

 Oggi si vive come se non si dovesse morire mai!

La vita è sradicata dalla morte; tutto ci distrae da questa realtà, e di conseguenza la visione che ha estromesso la morte dalla quotidianità, ha diminuito anche la capacità di accompagnare il prossimo moribondo.

Da evento gestito nell’ambito familiare e comunitario, dove la persona terminava la vita nel proprio letto, trasmetteva le ultime volontà, riceveva i sacramenti e si affidava a Dio per compiere una “buona morte”, è divenuto un momento anonimo da relegare in spazi artificiali, in ambienti specialistici per “scomparire in silenzio”, lontano dalla quotidianità, nell’ impersonale stanza d’ospedale dove avvengono circa il 75% dei decessi, oppure nelle “casa di riposo” (RSA), per non turbante l’equilibrio della gente.

Spesso si elogia chi “se ne è andato rapidamente senza disturbare nessuno”, facendo una “bella morte”, descritta dal francese Renè Rémond, come quella che “sopraggiunge all’improvviso, che vi porta via di sorpresa come un ladro e vi risparmia la sofferenza, la decadenza fisica e mentale, il timore dell’ultima ora”  (Il nuovo anticristianesimo, Lindau, pg. 16).

Sono state ideate, soprattutto nelle grandi città, le “case funebri” dove deporre la salma, affinché la società drogata dal delirio dell’onnipotenza e della bellezza inesauribile che concepisce la vecchiaia, la malattia e la morte come segni di decadenza, e perciò dimensioni deprecabili, non sia turbata da quest’ anomalia inaccettabile. E anche quando si visita la spoglia mortale si esprimono attestati di stima per lo scomparso, ma pochi si chiedono del suo futuro.

La morte, dunque, da evento sociale è stata privatizzata; coinvolge unicamente il defunto e i suoi famigliari. Per questo si predispongono alcuni accorgimenti affinchè passi inosservata e velocemente: basta rintocchi di campane a lutto o necrologi murali, niente cortei funebri al cui passaggio si toglieva rispettosamente il cappello o abiti appropriati al lutto per non adottare un atteggiamento dissimile da quello degli altri giorni.

No al culto della memoria. Scrive Ariès: “Nel XIX secolo era dappertutto presente: cortei funebri, abiti da lutto, estensione dei cimiteri e della loro superficie, visite e pellegrinaggi alle tombe, culto della memoria, ma questo eloquente scenario di morte si è dissolto nell’epoca nostra, e la morte è divenuta l’innominabile. Ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali” (op. cit., pg. 75).

No alle lacrime definite sempre da Ariès come “le escrezioni del malato e le urine e le une e le altre sono ripugnanti”(op. cit. pg. 62).

Le difese più comuni sono il “negare, rimuovere, dimenticare, fare come se la morte non esistesse. Sembra questa l’unica maniera di combattere l’angoscia di morte propria di questa società, di queste città che sono come grandi cimiteri, sotto la luna, di uomini morti, o uomini che devono morire e che molto spesso hanno nessuna o poca speranza in una loro personale vita eterna” (S. Acquaviva, Eros, morte e esperienza religiosa, LaTerza, pg. 160).

Pure negli ospedali il vocabolo “morte” è sussurrato sottovoce, sostituendolo con il termine “exitum”. La medicina, che spesso non riconosce i propri limiti, ha trasformato la visione della morte, e anche il medico, quando si dissolvono le ultime speranze, tende spesso a “passare la mano”, ad esempio, diradando le visite. E’ stato verificato che se in un reparto suonano contemporaneamente due campanelli, quello di un ammalato ordinario e quello di un morente, l’operatore sanitario istintivamente risponde per primo a quello del paziente comune.

Concludendo

Ovviamente, anche nel passato, la morte procurava timori ma per ragioni opposte: ieri la paura era suscitata dal giudizio di Dio, oggi dalla sua dimenticanza!

Rammentava il filosofo B. Pascal: “gli uomini non avendo potuto liberarsi dalla morte, dall’ignoranza e dalla miseria, hanno deciso per essere felici di non pensarci” (Pensiero, n. 250).

Don Gian Maria Comolli

(prima continua)