MORTE. UNA RIFLESSIONE DIFFICILE MA INDISPENSABILE PER VIVERE BENE. Cristianesimo e morte (3)

By 12 Novembre 2021Pillole di saggezza

Cristianesimo e morte

Il tema della morte ha interessato le religioni, i sistemi filosofici, la letteratura e l’arte che però non hanno sollevato la copertura del mistero. Dall’umanesimo greco in avanti molti hanno proposto delle risposte proponendo atteggiamenti di rassegnazione e di fatalismo, oppure consolazioni effimere e di breve durata. Altri hanno evidenziato nella morte, soprattutto quella incomprensibile degli innocenti, la prova della non esistenza di Dio e di conseguenza hanno seguito la via dell’ateismo.

Noi invece siamo convinti che il cristianesimo possa fornire speranze e ragioni al timore poiché la fede cristiana, autorizza il credente, a giustificare la morte come parte integrante di un cammino infinitamente più vasto; essa, non annulla la persona, ma la trasfigura mediante il perdurare dell’esistenza in tempi e in spazi differenti dagli attuali.

Inoltre, esiste una intrinseca relazione tra vita e morte, poichè il Signore Gesù ha insegnato con la sua risurrezione che oltre la morte, l’esistenza di ogni uomo proseguirà nell’eternità in comunione con Dio. In Cristo, rammentava san Paolo, “tutti riceveranno la vita”(1 Cor. 15,22), essendo il Figlio di Dio la “primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,20).

Ulteriori approfondimenti sono forniti dal Catechismo della Chiesa Cattolica che offre una risposta e una precisazione riguardante la “resurrezione dei morti”.  La risposta: “Con la morte avremo la separazione dell’anima dal corpo. Il corpo dell’uomo cade nella corruzione, mentre la sua anima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere riunita al suo corpo glorioso. Dio nella sua onnipotenza restituirà definitivamente la vita incorruttibile ai nostri corpi riunendoli alle nostre anime, in forza della Risurrezione di Cristo”(n. 997). La precisazione: “Il ‘come’ supera la possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nella fede”(n. 1000).

Ovviamente, l’accoglienza di questa veduta, è sempre e unicamente un dono di Dio che va invocato, come pure le convinzioni su queste realtà sono direttamente proporzionali alla fede individuale.

Riguardo alla risurrezione, il cardinale G. Biffi, affermò: “è molto interessante, drammatico e inevitabile parlarne perché i casi sono due: con la morte o si va a finire nel niente o si va a finire nella vita eterna. Le altre soluzioni sono forzatamente provvisorie. Io so già che tra qualche anno o andrò a finire nel niente o andrò a finire nella vita eterna. Ma se andrò a finire nel niente, io vivo già adesso per niente; cioè, se l’approdo dell’esistenza è il niente, anche la sostanza dell’esistenza è il niente, e questa è un’assurdità. Che qualcosa debba venire dal niente solo per tornare al niente è una contraddizione”( L’Aldilà, LDC, pg. 5). Già il filosofo russo J. S. Solov’ev  rammentava che la morte è “un fatto”, e nei confronti “dei fatti”, nessuna filosofia, ideologia e illusione estetica resiste (Cfr.: J. Solov’ev, A story of anti-Christ, Publishing 2012, pp. 66-72). Dunque, il cristiano possiede nella Risurrezione del Signore Gesù “il fatto” che lo salvaguardia dalla morte che rimane sempre, un mistero e un transito doloroso.

Queste riflessioni possiamo presentarle a coloro che propongono l’eutanasia come  “liberazione per il malato”, “ma la giustificazione è totalmente falsa poichè liberarsi significa passare da una situazione di assenza di libertà (chiusura fisica o morale) a una condizione di riconquista autonomia. Ma la morte, per ‘il non credente’, – e chi la richiede è tale – non è ‘passare a’, ma semplicemente ‘non esistere più’. La liberazione implica un poi nel quale la persona, non è più costretta o rinchiusa ma si realizza in maggiore pienezza e gioia. Ma niente di tutto questo può sperare chi non spera in niente dopo la morte” (G. Miranda, I problemi etici dell’eutanasia nell’Enciclica Evangelium Vitae, in E. Sgreccia – D. Sacchini, Evangelium Vitae e bioetica. Un approccio interdisciplinare, Vita & Pensiero, pg. 89).

La morte anche per il cristiano è circondata dal timore.

Anche il Signore Gesù, incarnandosi, ha vissuto l’ esperienza della morte; come ha reagito? Nel Getsemani ebbe paura e invocò Dio: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!”(Mt. 26,39°) e l’evangelista Luca aggiunge: “In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra”(Lc. 22,34). Pochi giorni prima pianse dinanzi al sepolcro del suo amico Lazzaro, pur sapendo che poco dopo l’avrebbe risuscitato (cfr. Gv. 11,1-44).

Ebbene, il cristianesimo, pur donando valide prospettive al fine vita, legittima il turbamento, il tremore e la trepidazione.

Concludiamo con una riflessione del filosofo M. Bizzotto che riassume quanto abbiamo affermato. Il cristianesimo “annuncia la speranza nella risurrezione, tuttavia non banalizza I’evento del trapasso, non ne toglie il peso e la sofferenza e nemmeno concede sconti. Il venerdì santo è sempre il tempo della tenebra e del lamento che esprime nella scena impressionante della croce lo strazio dell’abbandono di chi pur portando nell’agonia la speranza si sente sprofondare nella morte. Il pensiero del sabato di risurrezione è pensabile attutisca in parte il dolore del trapasso, ma non lo soppianta né lo ignora. La sofferenza dilaga e semina sconcerto. Tra venerdì e sabato santo c’è un salto, pur nell’ indissolubile e sostanziale unità. Per quanto si anticipi la promessa della vita, quando si cade, si cade senza attenuanti. Chi però pretende di anticipare I’esperienza del sabato, trapiantandola nel venerdì, incorre nel pericolo di rimuovere l’evento della morte più che sperimentarne lo strappo (…). Solo se la morte è avvertita con la sua durezza, appunto come morte, anche la speranza è autentica. La salvezza cristiana è già in opera in ogni momento del presente, tuttavia lascia aperto il percorso del suo compimento. L’essere presi dalla fretta impaziente di volerlo chiudere anticipatamente non giova né all’ autenticità dell’esperienza cristiana né a quella semplicemente umana. Anche la speranza è a volte fraintesa ed è sfruttata come favorevole pretesto per accettare con ingenuo candore la tragicità del male e della morte. Non c’è speranza se non c’è anche dolore e se non si avverte il carattere letale della morte con la sua forza dissolvente. Innestare direttamente il tema della beatitudine, saltando la storia, equivale spesso ad un comodo chiudere gli occhi alla realtà, soprattutto quando questa è incresciosa e triste” (Occultamento della morte, in “Camillianum” 17- 1998, pg. 52).

Don Gian Maria Comolli

(terza continua)

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