VATICAN NEWS -Suicidio assistito, PAV: incoraggiare a togliersi la vita non è risposta alla sofferenza

Gli interrogativi che la società dovrebbe porsi e soprattutto le risposte che dovrebbe dare di fronte a questioni delicate come la sofferenza e la fine della vita. La riflessione della Pontificia Accademia per la Vita e dell’Unione Giuristi Cattolici sul caso di ” Mario” l’uomo tetraplegico che ha ottenuto l’accesso legale al suicidio assistito.

Non si può minimizzare in alcun modo la gravità della situazione ma resta da chiedersi se “la risposta più adeguata davanti a una simile provocazione sia di incoraggiare a togliersi la vita”. Parte da qui il rilievo che la Pontificia Accademia per la Vita, in una Nota, muove alla notizia di queste ore riguardante il primo malato ad aver ottenuto il via libera al suicidio medicalmente assistito in Italia, un uomo paralizzato dalle spalle ai piedi da 11 anni a causa di un incidente stradale in auto. Al termine di un lungo iter, è stato il parere del Comitato etico, a seguito di verifica delle sue condizioni tramite un gruppo di medici specialisti nominati dall’Azienda sanitaria delle Marche, a confermare che c’erano tutti i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito.

La materia è delicata e controversa premette la PAV e la sofferenza determinata da una patologia come la tetraplegia è certamente comprensibile. Ma ci si chiede: “la legittimazione ‘di principio’ del suicidio assistito, o addirittura dell’omicidio consenziente, non pone proprio alcun interrogativo e contraddizione ad una comunità civile che considera reato grave l’omissione di soccorso, ed è pronta a battersi contro la pena di morte? Confessare dolorosamente la propria eccezionale impotenza a guarire e riconoscersi il normale potere di sopprimere, non meritano linguaggi più degni per indicare la serietà del nostro giuramento di aver cura della nostra umanità sofferente? Tutto quello che riusciamo ad esprimere è la richiesta di rendere normale il gesto della nostra reciproca soppressione?”.

La strada delle cure palliative

Altre dovrebbero essere le strade da percorrere, secondo la PAV, per una comunità che si renda responsabile della vita dei suoi membri, favorendo la considerazione che la vita stessa ha valore. Innanzitutto “un accompagnamento – come accade per le cure palliative – che assuma l’insieme delle molteplici esigenze personali in queste circostanze così difficili”, comprendendo anche la possibilità di “sospendere i trattamenti considerati sproporzionati dal paziente”.

Ruolo dei Comitati da chiarire

La vicenda solleva inoltre una domanda sul ruolo dei Comitati etici territoriali, difficile da chiarire. La PAV osserva infatti che il compito di verifica dei requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito spetterebbe ad un comitato tecnico, mentre il comitato etico “potrebbe essere più correttamente coinvolto in una consultazione previa alla decisione del paziente”.

Di quanto accaduto e dell’ulteriore passo giuridico sul tema abbiamo parlato con Vincenzo Bassi vicepresidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani dei Giuristi cattolici: dalle sue parole anche la spinta a incrementare la rete di famiglie contro la solitudine sociale e umana

Quale il suo parere su quanto stabilito nel caso di Mario?

Dalle informazioni che noi abbiamo sembrerebbe che con questo parere positivo la procedura di suicidio assistito debba essere conclusa. Ecco, probabilmente non abbiamo la certezza che questo veramente avvenga in assenza di una normativa specifica, soprattutto per quanto riguarda il trattamento medico che dovrebbe accompagnare la persona malata alla morte. Riterrei, quindi, che occorrerebbe aspettare ancora prima di valutare se questa possibilità di suicidio assistito si possa verificare nel breve tempo senza una normativa specifica. Indubbiamente, la Corte Costituzionale, nella sentenza di due anni fa (num. 242 del 22 novembre 2019, ndr), aveva ammesso la possibilità del suicidio assistito con tutta una serie di condizioni che ad oggi non siamo in grado di verificare. Mi permetto quindi soltanto di esprimere la drammaticità della situazione e che la morte è stata considerata solo la possibilità di soluzione di un problema.

Secondo lei, in sostanza, cosa è che fallisce in una situazione come questa?

In questi momenti è sempre difficile esprimere commenti. Sicuramente, il nostro non è un giudizio sulla persona, nessuno si può infatti permettere di giudicare una persona malata che arriva, perché disperata, a volere la sua morte. Posso immaginare che una delle cause che porta una persona a decidere di morire è la solitudine. Non essere parte di una rete di persone, di famiglie può essere una concausa della disperazione. La sconfitta è prima di tutto della nostra società che non riesce a star vicino alle persone e a trasmettere un senso anche in una situazione di difficoltà come quella di un malato che non può muoversi. Ogni vita ha un senso. Certo, le persone lo possono capire da sole ma non è facile. Occorrono persone che ribadiscano giorno dopo giorno che quella vita ha un grande senso per chi vive insieme al malato. Se manca questo rapporto intimo, di compassione, di amicizia inevitabilmente la vita è difficile da comprendere e le persone possono arrivare a voler morire.

Ma quindi secondo lei siamo in presenza di una solitudine amplificata da una società indifferente che sembra smarrire il senso della vita?

Spetta un po’ anche alla comunità trovare un senso alla propria vita o riuscire a riconoscere e a riscoprire il senso. Lasciare da sole le persone nella propria decisione mi sembra anche un po’ crudele. La solitudine crea freddezza, disperazione. Essere vicini e non sentirsi giudicati ma accettati dà sicuramente grande speranza e nella speranza si trova anche un senso. Ciò non riguarda solo chi si trova in una condizione di salute precaria, ma in generale tutti noi per cui nella disperazione qualsiasi via di uscita diventa una soluzione, anche la morte. Occorre incrementare il più possibile reti di famiglie che abbiano anche il compito di intercettare situazioni di disperazione per disincagliare soluzioni così estreme. Tutto lo si deve fare nell’ottica dell’accoglienza, come ci insegna Papa Francesco, rispettando la libertà di ognuno, ma che sia una libertà effettiva, consapevole, che arrivi a esprimere delle decisioni dopo un dialogo intimo che permetta di comprendere che la vita presenta tanti aspetti e molti di questi possono essere vissuti intensamente sebbene in una situazione di grande difficoltà. Dobbiamo tornare a parlare alle persone, a incontrarle. Viviamo in un’epoca in cui è difficile ripristinare il ‘villaggio’, dobbiamo sforzarci però di ricreare la qualità di quei rapporti sapendo benissimo che avevano anche dei problemi, sì, ma che permettevano di non essere soli. Trovare nuove forme di relazioni interpersonale che secoli fa si riuscivano a vivere.

Da un punto di vista comunicativo che tipo di responsabilità si sente mettere a fuoco?

Sicuramente, una cosa che dobbiamo evitare oggi, anche noi che siamo chiamati a esprimere delle considerazioni, è tentare di costringere le nostre comunità a prendere una posizione. Se adesso cominciamo a enfatizzare la questione, senza un vero spirito critico e ribadendo che ogni caso è diverso dall’altro e che le situazioni non possono mai essere paragonate, induciamo una semplificazione del problema. Tentare di creare – come forse l’associazione Coscioni vuole fare – una questione pubblica su una questione così personale, a mio avviso, è un errore enorme sia per il malato in questione, sia per la comunità, ma soprattutto per il bene comune. Perché il suicidio assistito non può rappresentare un bene comune ma è al contrario una sconfitta per la comunità. Sta a noi responsabilmente parlare di questo tema cercando di evidenziare il più possibile che ciascun caso è unico e che quindi è pericoloso procedimentalizzare la morte. Accostare la categoria della procedura alla morte è veramente qualcosa di drammatico e crudele.

A cosa prelude questa vicenda in Italia?

Adesso, dovremo aspettarci un dibattito parlamentare su questo tema. La cosa mi preoccupa non poco perché, se viene fatto senza le accortezze di cui parlavo prima, la nostra comunità si dividerà in modo evidente, perché tutti hanno paura di morire e di soffrire. La mancata delicatezza su questo tema creerà uno spirito, a ridosso del Natale, cupo. Speriamo di riuscire, anche nella nostra narrativa, a metter in evidenza la bellezza della vita, ma non di una vita astratta bensì concreta. Una società che spinge le persone a morire è una società che perde in speranza.

Antonella Palermo e Gabriella Ceraso

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