«Stiamo per sperimentare la fine della pandemia come fenomeno sociale», scrive il politologo Yascha Mounk, autore del bestseller «Popolo vs Democrazia», sulla rivista The Atlantic. In un articolo intitolato «Omicron segna l’inizio della fine», Mounk nota che qualcosa è cambiato in modo fondamentale nel nostro approccio al virus. Chi è vaccinato non è più disposto a lockdown come in passato, chi non è vaccinato continua ad opporsi e, dunque, non sorprende che a livello politico si propenda più per misure di «adattamento» alla crisi che ad «appiattire» davvero la curva. Lo abbiamo raggiunto al telefono in Toscana dove ha trascorso il Capodanno e dove ha notato l’uso frequente delle mascherine anche all’aperto e assidui controlli dei green pass nei ristoranti e bar: «L’Italia è diventato un Paese di persone che seguono le regole, contrariamente alla sua reputazione».
La pandemia finirà nel 2022?
«Ci sono due modi in cui potrebbe finire nel 2022. Il primo è biologico: scoprire che Omicron non fa ammalare in modo grave la netta maggioranza delle persone e che l’esposizione a questa variante, se vaccinati, protegge da ceppi futuri; così l’oggettiva minaccia del Covid cesserebbe di essere significativa. Ma questa è una congettura. Non sappiamo se sarà così, anche se è una speranza e uno scenario plausibile. Il secondo modo in cui potrebbe finire la pandemia è sociale, come sostengo nell’articolo: consiste nel dire che ci siamo abituati al fatto che la nostra vita implicherà più rischi nel 2022 rispetto al 2019 ma collettivamente e individualmente scegliamo che vivere in modo un più normale valga la pena di correre quei rischi».
L’atteggiamento è cambiato indipendentemente dalla gravità di Omicron?
«Anche se Omicron dovesse essere più pericolosa di quanto speriamo e anche se varianti future dovessero essere più gravi, sceglieremo di tornare ad una nuova normalità e non al lockdown: non smetteremo di vedere gli amici, di andare a cena fuori… In questo senso che penso che il 2022 probabilmente porterà la fine della pandemia. I nostri antenati hanno vissuto in contesti in cui i rischi per la loro vita ogni giorno erano enormemente superiori a quelli che affrontiamo noi, anche ora nel picco di Omicron. Eppure sceglievano di uscire e interagire: è un bisogno degli esseri umani. Quel che eroicamente abbiamo scelto nella primavera 2020 sarà sempre l’eccezione nella Storia. Ora possiamo sperare di tornare ad una nuova normalità che sia sicura quanto lo era alcuni anni fa o possiamo temere una nuova normalità in cui i rischi associati al vivere la nostra vita continuino ad essere elevati; ma in ogni caso stiamo cominciando a rientrare in una sorta di normalità in cui il bisogno di vita sociale ha la precedenza sulla paura del contagio».
Le regole
«Ci sono tre aspetti. Anche quando nel marzo 2020 scrissi un articolo intitolato “Cancel Everything”, in cui consigliavo il distanziamento sociale, dal lavoro in remoto alla cancellazione di eventi sportivi, l’aspettativa era che fossero misure temporanee: non poter vedere la tua famiglia per Natale è sostenibile solo per un tempo limitato. Il secondo è che i rischi oggettivi del virus sono significativamente più bassi ora rispetto al marzo 2020 perché in un Paese come l’Italia oltre l’80% della popolazione è vaccinato e molti hanno avuto un qualche contatto con il virus, e poi la capacità di cura è migliorata grazie all’esperienza dei medici e a nuovi farmaci. Il terzo aspetto è la stanchezza: ci siamo preoccupati così a lungo, non ne possiamo più. Tirando le somme è evidente che la reazione ad Omicron è assai diversa rispetto agli stadi iniziali della pandemia. I governi applicano alcune restrizioni, le persone sono un po’ più attente, ma non sono disposte a stravolgere le loro vite come nella primavera del 2020».
Questa fase della pandemia sembra molto diversa nelle società occidentali rispetto alla Cina che continua controlli ferrei: è una rivincita della società aperte?
«Non so fino a che punto la differenza sia ideologica o pratica. A lungo la Cina ha avuto più successo nel contenimento del virus rispetto alle democrazie occidentali, ma come risultato hanno una popolazione più “vergine” da un punto di vista immunologico, non essendo mai stata a contatto con il virus; così il pericolo con Omicron è molto più alto. Il paradosso è che il nostro relativo fallimento nel controllare il virus ci mette in una posizione migliore per affrontare nuove varanti, mentre in Cina il relativo successo iniziale rende più difficile tornare a qualcosa che somigli alla normalità».
Viviana Mazza
Corriere della Sera
2 Gennaio 2022