Il ritorno alla socialità è necessario e ne gioverebbero tutti. Ma per il bene comune e per evitare nuove emergenze, senza mettere a rischio i nostri indispensabili aperitivi, si dovrebbero superare alcuni piccoli ostacoli culturali.
Ieri ci siamo occupati del ritorno a una normalità da non auspicare, perché implica il ritorno alle stesse condizioni che hanno causato i problemi in cui oggi ci dibattiamo. Oggi vorrei trattare un altro aspetto del ritorno alla normalità, e precisamente di quella che chiamiamo normalità di interazione sociale. Invece di ritorno alla normalità tout court, proviamo ad analizzare un possibile ritorno alla socialità.
Innanzitutto, è necessario ricordare che, in questo caso, non vi sono adattamenti possibili che comportino la privazione prolungata dell’interazione sociale diretta fra le persone: anche in altri primati e fin dagli anni 1950 è stato dimostrato che gli effetti della cosiddetta “deprivazione sociale” sono devastanti, come del resto dimostra il fatto che la più grande punizione che abbiamo concepito nel nostro sistema penale non è il carcere in sé, ma l’isolamento.
Molti mi scrivono della voglia non solo di recuperare abbracci, baci e interazioni dirette con i propri cari, ma soprattutto della serenità nell’incontro occasionale con altre persone, sconosciute o comunque non appartenenti alla cerchia più interna della famiglia; questo elemento, ricordiamolo, è fondamentale ancor più per i giovani che costruiscono la propria rete sociale e cercano un partner il più possibile “lontano da casa”. Durante la pandemia, una delle più lampanti dimostrazioni di come noi non possiamo sopravvivere a lungo con questo tipo di privazione sociale è stato dato dal trauma subito da chi non ha potuto scambiare l’ultimo saluto con chi moriva per Covid; un dolore difficilmente sanabile, che non può diventare la norma e che è l’immagine estrema di quanto sia pericoloso trascurare certe caratteristiche del nostro essere primati sociali.
La necessità di ritorno a una normalità di questo tipo non è discutibile nemmeno per un momento; vi è però un secondo elemento importante da considerare, evidente nel ruolo che gli assembramenti di grandi quantità di persone hanno in occasione dei grandi eventi ludici, culturali e artistici. Si potrebbe credere che si tratti di eventi accessori, cui è facile rinunciare senza poi perdere granché; eppure, chi ragiona in questo modo non si rende conto che l’intrattenimento – ludico-sportivo, culturale, artistico – è in realtà uno dei pilastri su cui si fonda l’elaborazione della nostra cultura.
Se il mio lettore dovesse aborrire le discoteche, lo invito a riflettere: cosa sarebbe del teatro e dell’opera lirica, senza un pubblico da intrattenere con la manifestazione artistica? Per chi lavora l’artista, a chi comunica il suo messaggio: a un singolo collezionista, che pure basterebbe a mantenere la sua esistenza se fosse un mecenate, oppure è invece necessario e vitale per la produzione di un’opera d’arte che vi sia un pubblico da intrattenere, da ammaliare, da ingannare, da divertire o da istruire, e che insomma vi sia una simbiosi tra il produttore di un’opera o di uno spettacolo e un pubblico?
Certo, si potrebbe obiettare che la moderna tecnologia permette di usufruire di ogni opera artistica e di ogni spettacolo anche a distanza, per esempio attraverso una riproduzione ad alta fedeltà anche in diretta, oppure attraverso le meraviglie di realtà virtuali sempre più immersive, a partire dai nostri moderni televisori fino a marchingegni ben più sofisticati che il metaverso di certi guru tecnologici sembra annunciare; tuttavia, è da dimostrare che, tanto per il produttore quanto per il pubblico di eventi culturali, di spettacoli, di intrattenimento sia possibile sostituire la congregazione fisica di un vasto numero di esseri umani attraverso qualche intelligente ritrovato tecnologico.
Rispetto al tempo in cui gli antichi si aggregavano a decine di migliaia negli stadi, lo sport è arrivato anche in televisione; ma provate a chiedere ai calciatori o ai tifosi della curva se farebbero a meno delle folle negli stadi, e se non riterrebbero di perdere qualcosa. E che il ruolo degli eventi sportivi non sia trascurabile e vada oltre il puro intrattenimento, è cosa pacificamente accertata sia dagli storici che dai sociologi e dagli antropologi (ma anche dagli studiosi di scienza cognitive): in particolare, la congregazione di masse di individui diversi che condividono simboli e campioni rafforza dimostratamente il senso di comunità, in passato come nel presente, solo per citare il più ovvio dei ruoli riconosciuti a questo tipo di eventi.
Ora la domanda è: per riprendere l’indispensabile vita sociale e culturale descritta negli esempi precedenti, dobbiamo smettere di curarci del rischio costituito da Sars-CoV-2 oggi, e da nuovi agenti infettivi domani, far finta di nulla e continuare a scaricare il costo su chi dovrà poi curarci, accettando pure i danni dovuti alle massive assenze per malattie e un numero di morti in eccesso che non è facile determinare a priori, oppure c’è qualche alternativa?
Ieri abbiamo già osservato come sono innanzitutto richiesti interventi strutturali, dalla sanità, al monitoraggio epidemiologico, alla ricerca, alla logistica, alla produzione, financo all’architettura, di lunga durata, certo, ma in grado di mitigare il rischio ormai permanente di nuove pandemie.
Oggi domando al lettore: è davvero così insopportabile il fatto che, durante i periodi di massima circolazione di un virus respiratorio, ancor più se sconosciuto in caso di nuove varianti o nuovi patogeni, si diminuiscano tutti i contatti sociali e soprattutto si indossino le mascherine? In realtà, come dimostrano i casi di nazioni come il Giappone, ove si indossano mascherine da oltre 100 anni e la cosa è ormai considerata normale, non vi sono limiti di principio o biologici, ma solo ostacoli culturali. Sempre in Giappone, starnutire o soffiarsi il naso in pubblico è considerato gesto di estrema maleducazione, al pari di quanto sarebbe per noi ruttare davanti agli ospiti in una cena di gala: perché, quindi, non possiamo anche noi cominciare a introdurre simili accorgimenti culturali, uniti all’igiene delle mani e soprattutto all’attenzione ai sintomi, evitando per esempio di andare al lavoro o di mandare i bambini a scuola quando li manifestino?
A fronte dei cambiamenti nella sanità pubblica e agli altri cambiamenti strutturali, insieme agli ultimi ritrovati della ricerca e a un serio ragionamento sugli obblighi vaccinali, i comportamenti individuali che sapremo accettare come altri hanno già fatto saranno discriminanti per poter smettere di preoccuparci e recuperare la serenità, che consiste non nell’assenza del virus, ma nel sapere di stare facendo tutto quanto è necessario per evitare nuove emergenze; il tutto senza mettere a rischio i nostri indispensabili aperitivi.
Enrico Bucci
Il Foglio
20 Gennaio 2022