I tamponi sono un grande business per chi li produce e li vende. Quanto poi a sensibilità e specificità, anche i test molecolari non sono affidabili come si dice.
I tamponi non tamponano granché, anzi. Stiamo parlando dei tamponi che rivelano l’infezione da Covid-19. Vediamo quali sono le ragioni per cui dobbiamo guardare con diffidenza i tamponi come strumenti di lotta al virus e cosa si può proporre per ottimizzarne l’uso.
Il tampone è un punto di passaggio obbligato per chi, essendo entrato in contatto con il virus, vuole rientrare a scuola o al lavoro, ma è anche un facile strumento di auto-diagnosi al quale molti cittadini, temendo il propagarsi del contagio, ricorrono volontariamente. Percependo sia l’inevitabilità del virus, sia l’inerzia della pandemia, i tamponi sono diventati per una larga parte degli italiani un modo di tutelare la propria salute, più attivo delle mascherine e della prudenza che già mettono nei contatti sociali.
Pertanto, i tamponi fai-da-te si possono concepire come un embrione di partecipazione del singolo alla vita associata, un modo per ampliare e rendere più sicuri i rapporti con gli altri. Sotto questa luce, lo spirito pro-attivo che spinge i cittadini ad auto-somministrarsi i tamponi non è molto diverso da quello che li anima quando si vaccinano appena possibile. Ecco perché abbiamo una certa reticenza nel fare le affermazioni che stiamo per fare, però siamo convinti che è sempre meglio conoscere, che sottacere, gli aspetti in ombra nelle questioni sociali.
Il business dei tamponi
Cominciamo col dire che i tamponi sono un business, un grande affare per chi li produce e li vende. Fin qui, niente di strano: è una caratteristica del tempo che stiamo vivendo, come lo è la produzione di mascherine, vaccini, schermi di plastica, misuratori di temperatura e altre novità specifiche di questa lunga pandemia.
Il problema è che i tamponi hanno prezzi troppo elevati, sia in assoluto, ossia rispetto al costo di produzione, sia in relativo, ossia per quanto riguarda l’utilità rapportata al costo. Per capire meglio, è opportuno distinguere i due strumenti principali a cui si può ricorrere per sapere se si è entrati in contatto con il virus: i test antigenici, detti anche “tamponi rapidi”, e i test molecolari, volti alla misura della Pcr (polymerase chain reaction, reazione a catena della polimerasi). I primi sono, appunto, rapidi, richiedono pochi minuti, mentre i test molecolari richiedono un percorso di laboratorio e, quindi, uno o due giorni per la risposta. Esistono anche i test quantitativi delle immunoglobuline, detti anche “test sierologici”, che indicano sia un contatto (attuale o passato) con il virus, sia reazioni ai vaccini, e che in questa nota – a causa dell’ostracismo delle autorità sanitarie per questo tipo di test – lasciamo sullo sfondo.
I test antigenici, per ora, sono i soli commerciati in kit che possono essere somministrati con relativa facilità e dare risposta in poco tempo, tanto che qualsiasi adulto può dedurre dal kit se è nella fase acuta del contagio, oppure no. Se uno non riesce a trovare il kit, o non vuole fare il tampone in proprio, può farselo somministrare in farmacia, ma il processo di verifica è identico.
Abbastanza diverso è il processo di ricerca della Pcr, poiché il tampone deve essere inviato in laboratorio e per la risposta si devono attendere alcuni giorni. Già circolano kit autosomministrabili per il test Pcr, però l’analisi dei materiali va fatta (per ora) in laboratorio. Questo test è considerato lo standard assoluto per la verifica di una infezione in corso, anche se vedremo nel seguito che non è proprio così.
Piatto ricco mi ci ficco. Già dai primi mesi del 2020, in tutto il mondo, è partita la corsa alla commercializzazione di tamponi. La Commissione europea ha autorizzato la produzione di oltre cento tipi di tampone e nuovi marchi continuano ad aggiungersi. Negli Stati Uniti l’agenzia Fda (Food and Drug Administration) ne ha approvati “solo” 15.
Nella fase iniziale, la concorrenza tra case produttrici ha fatto diminuire i prezzi al consumo. Tanto per avere un riferimento, Amazon vende un test rapido (fai-da-te) per 4,50 euro, al supermercato si trova per 4,90 euro, mentre a Venezia (dati Venice International University) lo stesso test costa al cittadino 22 euro se effettuato presso un accesso al sistema sanitario, 23 presso una farmacia e 35 in aeroporto. Attorno ai 20 euro, i tamponi si trovano anche in altre province. Nei laboratori privati, il costo si aggira sui 30 euro. I prezzi variano, quindi, dal come e dal dove si ottiene il tampone.
In altri paesi, il prezzo del tampone rapido varia in farmacia da un minimo di zero, come in Danimarca e nel Regno Unito dove paga lo Stato, ai 2,94 in Spagna e ai 4,90 in Francia, dove il prezzo è calmierato, ai 35 euro dell’Irlanda. Negli Stati Uniti il prezzo per tampone varia tra i 35 e i 75 dollari, e lo Stato ne rimborsa 12, fino ad un massimo di 8 tamponi al mese.
Amazon vende anche un tampone per Pcr per 15 euro, tampone che si può ottenere anche presso un laboratorio italiano attrezzato per circa 90 euro. Negli Stati Uniti il prezzo di un test supera spesso i 100 dollari, ma può arrivare anche a 300, mentre il sistema di assistenza pubblico Medicare ne rimborsa 75 più altri 25 se la consegna del referto è effettuata entro due giorni dal prelievo. A dispetto dell’alto costo, negli Stati Uniti sono stati conteggiati presso le strutture pubbliche, quindi esclusi quelli fatti in casa o presso strutture private, 775 milioni di test al 24 gennaio 2022 (dati Cdc – Centers for Disease Control and Prevention), con una media di 3 per ogni adulto statunitense. In Giappone, invece, un test Pcr è addebitato per l’equivalente di 18 euro.
Si tenga conto che il prezzo di mercato dei test risente molto più delle brame commerciali che dei costi di produzione. In una trasmissione televisiva di Rete4, un importatore ha affermato che a lui un tampone rapido costa tra 1,60 e 1,80 euro, per cui riesce a farlo arrivare al dettagliante a meno di 2 euro. Il lettore stabilisca secondo la propria sensibilità quanto sia corretto il commerciarlo sopra i 20 euro.
Quello del tampone è un business soprattutto per i commercianti. Il ridotto prezzo all’ingrosso implica che i criteri di produzione sono elementari. Quindi, delle due l’una: o costi di produzione dei tamponi così simili implicano che tutti i marchi sul mercato sono prodotti quasi allo stesso modo, oppure, al contrario, che criteri di produzione diversi hanno circa lo stesso costo. Nell’uno come nell’altro caso, il costo di produzione non è indicativo dell’affidabilità del prodotto – mentre lo è, per esempio, per i vaccini.
Alcuni suggeriscono di adottare la velocità di risposta come criterio per l’affidabilità del test. Il principio implicito in questo criterio sarebbe che la risposta è meno sicura se il tempo richiesto dal test per ottenerla è più breve. Tuttavia, la velocità di risposta dei tamponi non è un parametro accettato dall’agenzia Fda americana, poiché la Fda dà per scontato che ci sono test che danno risposte rapide pur godendo di livelli di affidabilità paragonabili ad altri a risposta più lenta. Per farla breve, l’affidabilità richiede una verifica sperimentale in laboratorio.
Sensibilità e specificità
Entriamo allora in un campo che ha connotati un po’ più tecnici. Ogni test diagnostico è valutabile in termini di sensibilità, ossia rispetto alla capacità di identificare tutti i casi positivi, e specificità, ossia la capacità di identificare correttamente i casi negativi. I due parametri, sensibilità e specificità, sono, di solito, confliggenti, nel senso che quando uno aumenta, l’altro diminuisce, quindi si cerca di solito di bilanciarli.
Qualsiasi tampone può sbagliare sia nella determinazione corretta dei positivi che dei negativi al contagio. Se il test dà risposta negativa quando l’individuo ha un’infezione in corso è un falso negativo; se, invece, è “sano da Covid” ma il test è positivo, allora è un falso positivo.
Un falso positivo è, tutto sommato, un errore di poco conto, perché, alla peggio, uno a cui sia uscito un tampone positivo se ne farà un altro, e così quasi azzera la probabilità che il test sia positivo per errore due volte di seguito. Se, invece, ha un’infezione in corso e crede all’esito negativo del test, si comporterà come se fosse sano, e ciò contribuirà a diffondere la malattia. Quindi, il numero che può realmente provocare problemi sanitari è quello dei falsi negativi. In periodi di forte aumento dell’infezione in una comunità, la diffusione del contagio causata dai falsi negativi è quasi uguale a quella dei no vax.
Varie indagini svolte nel mondo per la verifica della attendibilità dei tamponi permettono di fare le seguenti affermazioni.
1) Per un dato test, la sensibilità è di norma inferiore alla specificità, nel senso che è molto più probabile che i test, sia quelli rapidi che quelli molecolari, non riescano a identificare dei positivi piuttosto che dei negativi all’infezione. Per i test basati sulla Pcr, la sensibilità è quasi uguale alla specificità: infatti, l’intera lista di test molecolari ammessi dalla Comunità europea ha una sensibilità dichiarata quasi sempre superiore al 90% e la specificità è del 100% o di poco inferiore. Invece, la sensibilità dei tamponi rapidi varia moltissimo secondo la marca del prodotto, il modo in cui è raccolta la sostanza analizzata, la capacità di chi pratica il tampone e persino l’età della persona analizzata.
2) I test basati sulla Pcr sono nettamente più affidabili di quelli basati su tamponi rapidi. Anzi, un test basato sulla Pcr è assunto da molti come lo standard dell’accuratezza, il gold standard. Invece, l’accuratezza non è così assoluta, nel senso che anche i test basati sulla Pcr sono soggetti ad errore: Kritikos et al. (2021), analizzando campioni di popolazione svizzera, dimostrano che la sensibilità di due test naso-faringei in commercio è del 98%, ma quella basata sulla saliva è del 69%. Anche Fougère et al. (2021), analizzando campioni di bambini svizzeri, determinano che i tamponi Pcr salivari sono meno affidabili di quelli naso-faringei. Inoltre, la sensibilità dei test basati sulla Pcr è stata stimata a Milano da Clerici et al. (2021) al 77-79% e in vari studi nordamericani citati da Kucirka et al. (2020) al 79%.
3) Se ogni caso positivo identificato da un test si rapporta al costo d’acquisto del test, ogni caso positivo scoperto da un test molecolare costa comunque più di uno identificato da un test rapido. Jakobsen et al. (2021), analizzando dati danesi, determinano che il costo per singolo caso positivo scoperto con un test Pcr è 10,80 euro e quello con un test rapido è 5,70 euro. Il dato danese si può leggere in questo modo: si possono scoprire due positivi al Covid usando test rapidi con la stessa spesa necessaria per trovarne uno con il test Pcr. Questo è un punto decisamente a favore dei test rapidi.
Assodato che la sensibilità e la specificità dei test basati sulla Pcr sono elevatissime, ma che la maggioranza dei test commercializzati è del tipo rapido, conviene riportare una sintesi dei principali risultati sulla sensibilità e specificità dei test rapidi. I già citati Jakobsen et al. (2021) affermano che in Danimarca la sensibilità dei tamponi rapidi è pari al 69,7% della Pcr, assunta come parametro assoluto, mentre la specificità è quasi la stessa (99,5%) della Pcr; in uno studio svizzero, Kritikos et al. (2021) stimano la sensibilità dei campioni naso-faringei rapidi al 35% e di quelli salivari al 41%.
In definitiva, la proporzione di falsi negativi con i test rapidi, calcolata come complemento ad uno della sensibilità, nella migliore delle ipotesi è pari al 30%, ma può arrivare al 65% delle persone in stato di contagio. Quello che è grave è che anche il test basato sulla Pcr, che viene spacciato per sicuro al 90% e più, non arriva sul campo all’80%, e non solo se è basato su prelievi di saliva, notoriamente meno affidabili.
Da cosa dipenda questa discrasia tra affidabilità attesa e realtà dei fatti non è facile dire. Certamente valutare la sensibilità dei tamponi rapidi in rapporto alla capacità discriminatoria dei test Pcr è un limite tecnico. Una seconda causa può essere il largo anticipo sulla realtà effettuale con cui si fanno le prove per la stima previa dei parametri di qualità dei dispositivi sanitari. Questa seconda debolezza si è già constatata con i vaccini, che sembravano scudi eterni e siamo già alla necessità di una terza dose in meno di un anno. Poi ci sono i problemi di campionamento e di trasferimento dei materiali, le interazioni tra la storia sanitaria delle persone e le specifiche dei test, e, naturalmente, i metodi adottati in laboratorio per l’analisi dei materiali.
Una volta di più si constata che – come dicono gli statistici che sanno – sensibilità e specificità sono concetti, forme ideali, mentre i falsi positivi e i falsi negativi sono persone in carne ed ossa, spesso in numero ben diverso da quello atteso. I falsi negativi, purtroppo, sono problematici, anche se incolpevoli. Non è certo colpa loro se, rassicurati da un tampone negativo, se ne vanno in giro senza sapere che, in almeno tre casi su dieci e talvolta in un caso sì e uno no, sono messaggeri del virus.
Cosa fare
In definitiva, cosa conviene fare? Certo non ha senso obbligare centinaia di migliaia di italiani – si è arrivati a superare il milione di tamponi ufficiali al giorno – a stazionare al freddo davanti alle farmacie per ottenere un tampone che permetta loro di andare a lavorare. È sufficiente, come suggerisce l’Istituto Superiore di Sanità, ricorrere al tampone molecolare solo in casi specifici, ossia “in caso di sospetto sintomatico, contatto stretto di caso confermato, negli screening degli operatori sanitari, nei soggetti a contatto con persone fragili o per l’ingresso in comunità chiuse o ospedali”. Negli altri casi, conviene ricorrere al test rapido, che ciascuno è in grado di somministrarsi da sé. Tutto sommato, un test rapido sull’infezione ha lo stesso grado di difficoltà, mutatis mutandis, della verifica di una gravidanza con un kit che ogni donna sa utilizzare.
Resta da decidere quale valore informativo si vuole dare all’auto-somministrazione di un tampone fai-da-te, vale a dire se ha valore per il solo individuo che lo realizza o se può averlo anche erga omnes. La situazione drammatica che stiamo vivendo ci obbliga a fidarci dello spirito civico degli italiani. Diamo per scontato che, se uno si è autosomministrato un tampone e risulta positivo, se ne somministra un secondo e, se pure questo è positivo, lo segnala all’Asl, si cura o si fa curare, poi segue le norme per la quarantena. Se non lo fa, lo si fa pagare.
Se l’obbligo di andare in farmacia serve solo, o soprattutto, a stanare i no vax, conviene essere più elastici. Partiamo dal principio che la coscienza civica che induce un cittadino a comportarsi quando scopre la propria positività al virus è la medesima, vuoi che il tampone l’abbia fatto in farmacia, vuoi in casa. Quindi, un’autocertificazione surroga bene una certificazione fatta dal farmacista.
Chiudiamo questa nota chiedendoci se conviene regolamentare il prezzo dei tamponi. Di solito, sul libero mercato, la regolamentazione provoca una immediata riduzione delle forniture e quindi della disponibilità. Il problema è che la grande offerta presente sul mercato non sta riducendo i prezzi, anzi, in vari paesi i prezzi dei tamponi stanno aumentando perché seguono l’andamento produttivo della Cina, paese in cui è dislocata la massima parte delle case produttrici di tamponi e dei componenti di base per la loro manifattura. E quando la domanda tira, i prezzi aumentano, talvolta in modo incontrollato. Il governo italiano dovrebbe, dunque, porre all’ordine del giorno una regolamentazione del prezzo dei tamponi.
Luigi Fabbris
Il Sussidiario
31 Gennaio 2022