In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc. 15,1-10)
Per comprendere il simbolismo delle figure del buon pastore, della donna operosa e anche del padre misericordioso, presente nelle parabole proposte, è indispensabile riscoprire il senso del peccato che possiamo esaminare da varie angolature. Ma per afferrare la gravità del peccato occorre collocarlo nel contesto della fede che indica l’esistenza di Dio che ama il mondo, che dona la vita all’uomo e stabilisce con lui un rapporto di relazionalità, oltre offrirgli la capacità di assumere vari comportamenti mediante la sua libertà.
Da un punto di vista antropologico il peccato è un limite che l’uomo costata dentro di sé. Può decidere il confronto con la visione cristiana di peccato, oppure può illudersi di superarlo con la propria veduta relativa; basti pensare alle varie forme di ateismo che proseguono dalla metà dell’ottocento ai nostri giorni: quello materialista, positivista, marxista o anche notare forme più artefatte di ateismo che partono dalla costatazione che l’uomo esiste, ma non è in grado di trascendersi. E’ il pensiero di J.P. Sartre o di A. Camus che nel romanzo “La peste”, un allegoria della lotta della resistenza europea contro il nazifascismo e, più in generale, del combattimento contro il male, raffigura l’uomo chiuso in una città da lui costruita, assalito dall’angoscia dinanzi al suo destino, simile a quello sperimentato nel tempo della peste. Dunque, anche il non credente si pone il problema del limite, cioè del peccato, definito sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento: ingiustizia, egoismo, falso culto a Dio ed erroneo esercizio della libertà.
Il peccato è ingiustizia, consentendo di utilizzare autonomamente, cioè indipendentemente dagli altri e da Dio, i doni ricevuti che invece creano degli obblighi verso i fratelli e verso il Creatore.
Il peccato è egoismo: orienta l’interesse solo a se stessi mediante l’ambizione del potere, della prevaricazione e del carrierismo, Si sacrificano, ad esempio, gli affetti più importanti affermando ipocritamente che lo si fa “per i bene della famiglia…”, “perché i figli abbiano di più…”; ma questo “abbiano di più”, serve soprattutto a quietare il nostro egocentrismo.
Il peccato propone un falso culto a Dio. Ad esempio, il figlio maggiore della parabola del padre misericordioso (presente nella “forma lunga” del Vangelo di questa domenica e da noi commentata nella IV domenica di quaresima) riteneva di onorare il padre, ma il suo era un culto erroneo, non avendo compreso di abitare con un padre molto generoso e, di conseguenza, doveva ricercare il fratello perduto o per lo meno condividere la gioia del ritorno.
Il peccato svela la fatica del gestire la libertà.
La libertà è spesso condizionata dallo stato di creaturalità e dai suoi vincoli e dipendenze, soprattutto nei riguardi delle assuefazioni, delle abitudini e delle consuetudini che possono essere positive o negative.
Dio, soccorrendoci, non ci rinfaccia la nostra miseria, né intende toglierci qualcosa, come disse Satana alla prima donna della storia: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diverreste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen. 3,4). In altre parole, la convince asserendo: voi credete che Dio vi abbia offerto le cose migliori, ma si è conservato per sé l’albero della conoscenza. Non vi ama totalmente, altrimenti vi avrebbe donato anche l’acquisizione del bene e del male”. Così, si fa strada in Adamo e Eva, l’entusiasmo nell’accettare la proposta del “separatore”.
Ebbene, siamo stati creati per essere liberi, cioè uomini che sanno amare. E ciò che ci rende liberi è soltanto il Vangelo che, però, è diverso dalla legge; infatti la sua struttura antropologica è rovesciata rispetto ai parametri del mondo. Più ci sentiamo amati da Dio e maggiormente constatiamo la grandezza della nostra libertà e, dato che ci è offerta una libertà immensa, questa va utilizzata nel servizio dell’altro. La misura del servizio è direttamente proporzionale alla comprensione della libertà.
Allora, ci rendiamo conto del dovere di perdonare “settanta volte sette”, cioè sempre, come pure il significato del lavare i piedi gli uni agli altri. Si capisce perché “c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Si intuisce, infine, l’importanza della confessione. Infatti “la confessione individuale e l’assoluzione costituiscono l’unico modo ordinario con cui il fedele, consapevole del peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa” (Giovanni Paolo II, Misericordia Dei, 2002, n. 7).
Don Gian Maria Comolli
11 settembre 2022