Ormai da decenni la politica italiana discute sulla costante diminuzione degli operatori sanitari: da 18 milioni nel 2013 a 15 milioni nel 2020, e si prevede che saranno circa 10 milioni entro il 2030 con il rischio dell’abbandono di malati, disabili, anziani… Tante chiacchere ma nulla di concreto! I motivi di queste rinunce sono molteplici: dai stipendi inadeguati ai pensionamenti…; alle conseguenze fisiche e psicologiche del Covid che ha colpito vari operatori con quella sindrome definita “burnout”, a cui si è posta scarsa attenzione e che tenteremo di comprendere.
Cos’è il burnout
Chi opera in sanità è ben consapevole che accostare quotidianamente il sofferente richiede non solo la preparazione professionale ma anche abbondante energia psichica. A volte, però, ci troviamo di fronte a operatori sanitari che mostrano segni di depressione, perdono fiducia nelle loro capacità, diventano passivi, si rifugiano nella routine, il loro senso d’identità professionale e l’autostima sono compromessi, rinunciano alle responsabilità, si disinteressano del loro lavoro e innalzano rigide barriere difensive. Il rapporto con il malato subisce una brusca trasformazione: da un atteggiamento positivo e quasi di tenerezza si passa a uno stile relazionale improntato all’allontanamento e all’indifferenza fredda e impersonale.
Questo insieme di vissuti psichici e reazioni comportamentali riguardano appunto la patologia del “burnout” che significa: “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”. Il termine fu usato per la prima volta nel settore sportivo nel 1930 per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti. Fu poi ripreso dalla psichiatra americana C. Maslach nel 1975 che si avvalse del vocabolo per definire una sindrome (sintomi patologici-comportamentali) presente in alcuni operatori che svolgevano professioni a elevata implicazione relazionale.
Il burnout è una condizione di logorio psicologico, di esaurimento emotivo e professionale, che potrebbe colpire chiunque eserciti professioni dove i rapporti interpersonali sono frequenti ed emotivamente intensi, nei quali è elevata l’implicazione relazionale e la persona è caricata da una duplice fonte di stress: quello personale e quello della persona aiutata. E’ il caso degli operatori sanitari, degli insegnanti, degli educatori, dei volontari… Il burnout è un esaurimento, un appiattimento, uno spegnimento emozionale. Ne consegue che, se non opportunamente trattati, questi soggetti sviluppano un lento processo di “logoramento” o di “decadenza” psicofisica dovuta alla carenza di energie e di capacità per sostenere, e conseguentemente, scaricare lo stress accumulato. Gli effetti del burnout non coinvolgono unicamente la vita professionale dell’operatore ma, anche il sofferente al quale è offerto un trattamento di routine con prestazioni sempre più mediocri e una relazione di fredda indifferenza, la struttura sanitaria per la diminuzione della performance e della qualità del servizio e per le assenze frequenti e anche la famiglia dove sorgono tensioni e conflittualità. «Quanti sono i casi di burn out? Tanti, troppi e in continuo aumento. Già diversi anni fa, nel 2001, i dati di uno studio condotto in un Ospedale del centro Italia ottenuti con l’utilizzo di test psicometrici e una check list per misurare i sintomi somatici e psichici relativi allo stress occupazionale, rivelano che il 56% dei medici ospedalieri, il 50% di quelli della medicina generale e il 70% degli infermieri sono “bruciati”, con una netta prevalenza nel gruppo delle donne e dei giovani (per i medici) e delle donne più anziane (per le infermiere). Va inoltre notato che è stata rilevata una tendenza al suicidio nelle donne medico o infermiere al suicidio doppia rispetto alla popolazione femminile di controllo» [cfr. S.E. JANKSON, R.L. SCHWAB, R.S. SCHULER, Toward an Understanding of the Burnout Phenomenon, in Jour. Appl. Psychol, 71 (2016) 4, pp. 630-640].
Un cammino in più tappe
Il burnout, che non esplode da un giorno all’altro, è descritto dalla letteratura come un processo a più fasi.
1.Esaurimento emotivo.
È il periodo seguente le grandi speranze e le immense attese nei confronti della professione quando le difficoltà, le diffidenze e le ostilità non incutevano paura. Ora, trascorrendo il tempo, appaiono i segni della fatica verificando che le aspettative non coincidono con la realtà lavorativa. Ciò si manifesta nel nervosismo e nel disagio e anche nella riduzione dell’efficienza non notando i risultati sperati. Forse, con troppa leggerezza, si aveva idealizzato il sofferente, mentre l’assistito non è scelto ma solo accettato nell’unicità dei suoi bisogni e dei suoi problemi e, a volte, è scarsamente riconoscente. In questa prima fase, l’investimento delle energie psichiche è sempre più gravoso ma i risultati sono insignificanti.
2.Spersonalizzazione.
Poiché la professione non offre le soddisfazioni attese e notando un notevole scarto tra l’ideale e la realtà, si fa strada la sensazione del fallimento e il lavoro è percepito sempre più oppressivo; perciò si attuano strategie difensive. A volte si deteriora anche il benessere fisico e compaiono sintomi psicosomatici (insonnia, ipertensione arteriosa, coliti…) e psicologici (depressione, ansia, oppressione…). I disagi si avvertono dapprima nell’ambito professionale ma poi si trasferiscono sul piano personale (abuso di alcol, uso di sostanze psicoattive e di stupefacenti).
3.Demotivazione.
È la tappa dell’allontanamento emotivo e relazionale dagli altri e dalla attività professionale avendo costatato definitivamente l’impossibilità di realizzare le proprie attese; è la “morte professionale”. Il più delle volte il lavoro prosegue in quell’ ambiente per motivazioni estrinseche ma ricercando compensazioni all’esterno e fughe.
Cause scatenanti il burnout
Le cause che scatenano questa patologia sono varie.
Generali.
1.La più determinante, come già affermato, riguarda l’aspetto relazione e il coinvolgimento emotivo ed emozionale nel rapporto con il sofferente. Un coinvolgimento, a volte, difficoltoso da gestire poichè la relazione diviene sempre più intima ed emotivamente implicante, creando identificazioni e fusioni emotive e, di conseguenza, le difese psicologiche diminuiscono.
2.Il divario tra le richieste e l’effettivo aiuto che l’operatore può offrire.
3.Il sovraccarico di lavoro dovuto alla carenza di personale o turni ripetuti.
4.L’assenza di equità nell’assegnazione dei carichi di lavoro, nelle retribuzioni o nell’attribuzione delle promozioni.
5.I conflitti causati da modelli organizzativi inefficienti.
6.Le labili motivazioni che hanno indotto ad optare per una professione di aiuto e le delusioni rispetto alle aspettative.
7.I valori contrastanti tra quando l’organizzazione proclama ma non concretizza nel quotidiano con condotte incoerenti e con scelte discutibili.
(Per i medici): il quotidiano stressante lavoro burocratico, il timore di denunce, l’attuazione di una “medicina difensiva” per tutelarsi da contenziosi legali.
Personali.
Rischiano maggiormente il burnout le personalità introverse e incapaci di operare in équipe, chi si pone obiettivi irrealistici, chi adotta stili iperattivi o forti abnegazione al lavoro stimato sostitutivo degli aspetti sociali e famigliari.
Socio-demografici.
-Differenza di genere: le donne sono maggiormente predisposte al burnout.
-Età: i primi anni di lavoro risultano quelli più a rischio.
-Stato civile: più colpito è colui che è privo di un partner stabile.
Come prevenire il burnout
In letteratura sono presenti varie strategie preventive; noi ne indichiamo quattro.
1.Conoscersi.
E’ fondamentale la “conoscenza di sé” e il salvaguardare la salute del corpo, della psiche e dello spirito. Per “servire” adeguatamente, l’operatore deve “volersi bene”. Non a caso, nel Vangelo, Gesù Cristo afferma: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc. 10,27).
2.Addestrarsi a lavorare meglio.
Uno strumento è la “formazione permanente” che supporta l’operatore nel gestire correttamente le molteplici situazioni e lo induce ad operare fruttuosamente con gli altri.
3.Relazionarsi empaticamente senza scordare il “come se”.
Dialogare empaticamente con il malato è importante ma senza identificarsi totalmente nel suo problema e non rinunciando alle proprie ricchezze emotive. Consigliava C. Rogers, psicologo statunitense noto per i suoi studi sul counseling e la psicoterapia: «Sentire il mondo più intimo dei valori personali dell’altro come se fosse proprio, senza però mai perdere la qualità del “come se”, è empatia. Sentire la sua confusione, o la sua timidezza, o la sua ira, o il suo sentimento di essere trattato ingiustamente come se fossero propri, senza tuttavia che la propria paura, o il proprio sospetto si confondano con i suoi, questa è la condizione che sto cercando di descrivere e che ritengo essenziali per instaurare un rapporto produttivo» (K. ROGERS, La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze 1970, pg. 92).
4.Ponderare seriamente questa sindrome.
Individuare un operatore sofferente di burnout è difficoltoso, poiché spesso si tende a reputare la situazione di malessere riconducibile a problemi dell’individuo svincolati dal contesto lavorativo. Ma, chi si riconosce vittima del burnout, lo deve ammettere superando la colpevolezza dovuta alla debolezza o anche la vergogna della rinuncia e della sconfitta.