Da pochi giorni è stato celebrato il Giubileo dei Diaconi Permanenti. Ho chiesto quindi al diacono Cesare, architetto, amico da tanti anni e Diacono della Diocesi di Milano, di descriverci questa figura e soprattutto di testimoniarci la sua missione.
Con questa riflessione intendo rispondere ai seguenti interrogativi: chi è il Diacono permanente? Qual è la sua storia? Quali sono i suoi compiti nella Chiesa? Risponderò a queste domande riferendomi al Sacramento del Matrimonio, in quanto il Sacramento dell’Ordine si è innestato in quello Matrimoniale.
Mi chiamo Cesare e sono sposato con Cristina da 36 anni; sintetizzerò di seguito quali siano stati i passaggi fondamentali in termini di crescita umana e spirituale, quali siano stati i momenti difficili segnati da miserie, fatiche e rischi, dove abbiamo sperimentato “il limite” nonché i benefici ricevuti da Dio.
I NOSTRI DESIDERI
Da novelli sposi, innamorati e incantati dall’attrazione l’uno verso l’altro, eravamo convinti che la nostra vita sarebbe stata colma di gioia e felicità: avevamo molti desideri e progetti da realizzare interessanti e legittimi: desideravamo almeno tre figli; eravamo molto impegnati entrambi dal punto di vista professionale e ci aspettavamo di mantenere una buona posizione sociale o magari anche di migliorarla.
Ma ecco l’avvenimento destabilizzante: dopo circa tre anni di matrimonio ci accorgemmo che il nostro desiderio principale, quello di diventare genitori, non si concretizzava, e dopo aver fatto numerosi esami che andarono a ferire anche la nostra dignità di persona, ci venne proposto di tentare la strada della fecondazione assistita.
L’UNIONE DA COSTRUIRE
In questa situazione, dapprima ci ritrovammo smarriti; ci rendemmo conto che il nostro rapporto era stato messo alla prova, infatti abbiamo vissuto la fase della mortificazione del desiderio, l’esperienza del fallimento, la percezione di una profonda ferita, il senso di inferiorità rispetto alla condizione comune delle altre coppie. Gradatamente però, affiorò ciò che avevamo appreso nel corso degli studi e ciò che ci era stato trasmesso dai nostri genitori in termini di morale e di etica; così esprimemmo il nostro NO a seguire questa strada anche perché, riflettendo su quale decisione prendere, cresceva fortemente in noi la convinzione che la vita è un dono di Dio e l’uomo in quanto creatura, può aiutare la natura con la ricerca e nuove tecniche, ma non può sostituirsi al Creatore.
LA RELAZIONE CON DIO
D’altra parte eravamo anche tormentati da una domanda che rivolgevamo al Signore di continuo.”Perché questo proprio a noi? Cosa abbiamo fatto di male per meritare questo castigo?” Eravamo “in lotta” con Dio, perché vedevamo, molto vicino a noi, che alcuni rifiutavano la vita, ad altri era concesso questo dono fuori dal matrimonio, e perché allora Dio non concedeva il dono di un figlio anche a noi?
Un giorno riprendemmo il libretto preparato per la celebrazione delle nostre nozze, giorno in cui avevamo detto il nostro SI’ ad accogliere la vita, e ci soffermammo sul brano del Vangelo di Matteo: 7,21-27. Ci venne spontaneo chiedere al Signore di farci capire quale fosse la sua volontà su di noi, quale fosse il suo desiderio per la nostra coppia, la fecondità da realizzare, visto che probabilmente non era quella di essere beneficiati dal dono di un figlio. Inoltre, il Signore, non mancò di risponderci mettendoci al fianco un Sacerdote che ci fu molto vicino in questo dramma e con l’aiuto di Maria ci guidò fuori da questo incubo.
IL DESIDERIO DI DIO SU DI NOI
Iniziò così un processo di lenta guarigione delle ferite che portavamo nel cuore e soprattutto iniziammo un cammino di conversione che ci fece ribaltare tutti i nostri progetti e le nostre priorità.
In questo cammino di fede:
1- Riscoprimmo la grazia del Battesimo, prendendo coscienza di essere figli amati da Dio e non puniti da Dio. Iniziammo, inoltre, a passare da “cristiani impalati” a “cristiani attivi”. Scoprimmo anche l’importanza dell’ appartenenza alla “comunità cristiana” mettendoci così al servizio dei più piccoli nella nostra Parrocchia di S. Pio X in Desio;
2- Scoprimmo che il Sacramento del Matrimonio si rinnova continuamente.
3 – Imparammo a stare alla presenza di Dio nei momenti di adorazione.
In questo processo di conversione, dopo otto anni di matrimonio, nel 1997, risposi “SI’ “alla chiamata del Signore al servizio della Chiesa e nacque un germoglio: la vocazione al Diaconato Permanente. Il Signore stava così trasformando una situazione di fragilità, al limite della disperazione, in un evento che sarebbe stato benefico e fecondo per noi come coppia e per la Chiesa.
LA FECONDITA’ DA REALIZZARE
La nascita all’interno del matrimonio di una vocazione di questo tipo, orientò diversamente, direi in maniera “Trasgressiva” la nostra vita, tanto che i familiari ,gli amici, i parenti, i colleghi di lavoro, probabilmente non compresero cosa ci stava accadendo. Ci stavamo infatti “esponendo” sempre di più per Cristo, con tutto ciò che ne consegue: giudizi, problemi nella professione di entrambi, derisione o attacchi aggressivi.
Negli otto anni di cammino fino alla ordinazione che hanno comportato studio Teologico, momenti di verifica, di ritiro, di crescita nella preghiera e nella dimensione della carità, mia moglie è sempre stata al mio fianco con il suo sostegno. E, così, il 2 ottobre 2005 fui ordinato Diacono Permanente dal Card. Dionigi Tettamanzi.
COSA ABBIAMO VISSUTO COME COPPIA IN QUESTI ANNI DI PREPARAZIONE AL DIACONATO?
Momenti di grazia, alternati a periodi di difficoltà tecniche, perché non è stato semplice conciliare lo studio con il lavoro e le esigenze familiari, oltre agli impegni di servizio assunti nella Chiesa; però il Signore ci ha largamente ricompensato donandoci quella gioia interiore che nulla e nessuno può rapire dai nostri cuori.
Vorrei ora rendervi alcuni “quadretti” di quanto vissuto fino a qui nella veste di Diacono Permanente:
Il Card. Dionigi Tettamanzi mi affidò l’incarico per il mio servizio Diaconale come “collaboratore pastorale presso la cappellania dei santi Ambrogio e Francesco nel presidio di riabilitazione neuropsichiatrica “Corberi” in Mombello di Limbiate”. Un esperienza totalmente nuova.
Quando, dopo l’Ordinazione, con mia moglie entrai in quel luogo per la prima volta e scoprii che erano ricoverati circa 200 malati con problemi intellettivi e neuropsichiatrici di diversa gravità mi assalirono sentimenti di imbarazzo e paura e mi domandai: “io qui cosa dovrei fare?”
Chiesi ai dirigenti della struttura di spiegarmi qualcosa di questa realtà e rimasi ancora più confuso, e confusi rimasero anche loro, avendomi scambiato per Pastore Protestante dato che sono sposato. Domandai quindi al Signore di aiutarmi in quanto mi sentivo “debole, inadeguato, privo dei mezzi necessari” per affrontare il compito assegnatomi. Dopo un po’ di tempo ho iniziato a prendere atto delle varie situazioni e a comprendere le dinamiche interne, oltre che conoscere i malati, i loro famigliari e gli operatori sanitari, nonchè il funzionamento burocratico della struttura. Con l’aiuto dello Spirito Santo si è creata gradatamente una piccola comunità e grazie alla Provvidenza siamo anche riusciti a restaurare la Chiesetta.
Quando uno entra in questo luogo, non può rimanere indifferente: a volte si vivono situazioni divertenti ma il più delle volte viene messa alla prova la pazienza e la fortezza. Anzi, per quanto mi riguarda, a volte mi capita di commuovermi profondamente durante le celebrazioni perché tra queste persone si fa l’esperienza del vedere, o meglio di toccare e di condividere la sofferenza degli innocenti e ci si pongono le domande fondamentali sul senso della vita: “Chi sono? Da dove vengo? Dove sto andando?”.
Spesso mi sono anche domandato chi sono, come vivono, cosa vivono questi malati che noi chiamiamo “i ragazzi”. E, mi sono accorto frequentandoli, che essi, come ogni persona, hanno bisogno di essere riconosciuti nella propria identità; perciò cercai di chiamarli per nome.
Essi hanno un grande desiderio di relazione e un grande desiderio di dare e ricevere amore, e, se li guardiamo come persone e non unicamente come malati oggetto di cure, possiamo scorgere in loro la presenza del Signore Gesù (cfr. Mt.25, 36; 40). Da parte loro vieni identificato come il loro infermiere/operatore/volontario, ma anche in alcuni casi come fratello, sorella, padre e madre come se volessero ricostruire i legami della famiglia. Con l’aiuto del presidente dell’Associazione dei genitori, ho potuto accostare genitori, fratelli, sorelle e familiari, da alcuni dei quali ho ricevuto grandi lezioni di fede e di tenacia. Da parte sia degli ospiti che dei familiari ho ricevuto anche delle provocazioni: “Tu che Sei Chiesa, cosa fai per noi?” o “Se il tuo Dio è così buono, perché non fa qualcosa per mio figlio?” o “Io in Chiesa non ci verrò mai e so io il perché”, oppure: “Che fede vuoi che io abbia? Il Signore mi ha dato un figlio diabolico, poi mi ha portato via il marito; io ora sono sola. Dovrei credere che Dio mi è vicino?”. “Non venire da me a parlarmi di fede, di preghiera o di Dio, perché io con Dio e con la Chiesa sono arrabbiato, essendo stato emarginato dalla mia comunità parrocchiale in quanto con un figlio disabile”. Col tempo, ho compreso, che io non sono là con la pretesa di imporre Cristo. Per prima cosa mi metto in ascolto, in secondo luogo propongo poi momenti di preghiera. Il più delle volte mi sento impotente di fronte ai problemi che mi vengono posti e non posso fare altro che ascoltare, presentare nel silenzio ogni situazione al Signore , oltre che esserci con la mia presenza fisica, in quanto mandato dal Vescovo come segno che la Chiesa non è distratta, ma vuole essere vicina ad ogni suo figlio. Questa è la mia missione primaria in quel luogo emarginato ed emarginante! Sono sempre più convinto che questo tipo di malati invisibili per il mondo, sono i primi agli occhi del Signore Gesù, quanto sono “puri di cuore”, e anche canali di salvezza per chi dona loro amore.
Dei circa duecento malati presenti venti anni fa, ora ne sono rimasti 60 residenziali dei quali circa trenta partecipano alla S. Messa, mentre gli altri li raggiungo a turno dopo la celebrazione nei propri reparti, dove preghiamo insieme ai loro operatori, dei quali ho grande ammirazione.
Nella mia vita non ho mai vissuto un’esperienza così forte che mi sprona ad una ulteriore conversione personale, poichè queste persone mi mettono in discussione, mi mostrano le mie ferite e i miei difetti, mi permettono di verificare il livello della mia fede nel Cristo.
Avrei un gran numero di episodi da raccontare in merito alla ricchezza interiore di questi “fratellini”. Molti si sono riaccostati alla confessione e alla comunione dopo anni, altri hanno iniziato un cammino serio di conversione. Questa è una comunità terapeutica dal punto di vista spirituale e i soggetti della terapia sono i miei ragazzi.
CONCLUSIONE
Come avrete notato, dei nostri desideri iniziali non è rimasto nulla, ma si è aperto un orizzonte talmente ampio che a noi spesso pare di essere veramente di fronte a cieli e terra nuova. Anziché tre figli, ci siamo ritrovati con molti figli; oltre ai nostri pochi fratelli di sangue, abbiamo trovato centinaia di fratelli in Cristo; anziché relazioni ristrette ai soli familiari e amici intimi, abbiamo intessuto una marea di relazioni stupende. Posso affermare che la nostra è una famiglia “allargata”. Inoltre, abbiamo imparato che le vie del Signore sono imperscrutabili, come lo sono i suoi pensieri, e a noi creature, spesso non è dato di capire tutto. Abbiamo imparato ad affidarci a Dio Padre e a ringraziarlo ogni giorno per quello che siamo e per quello che abbiamo, anche quando il lavoro va male, anche quando sembra che tutto intorno a noi crolli, anche quando avremmo bisogno di un conforto o di sostegno ed invece ci viene chiesto di confortare e di sostenere le persone che incontriamo quotidianamente.
Diacono Cesare Bidinotto