E’ ricorso il cinquantesimo anniversario del “Credo del Popolo di Dio”, la solenne professione di fede proclamata il 30 giugno 1968 dall’allora pontefice e futuro beato Paolo VI sul sagrato di S. Pietro a conclusione dell’Anno della Fede, da lui indetto il 29 giugno 1967 per celebrare il XIX centenario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo.
Il Credo del Popolo di Dio è un testo piuttosto lungo e articolato, la cui versione finale si discostò solo in minima parte dalla traccia redatta dal filosofo e amico di papa Montini, Jacques Maritain, e che come ebbe a dire lo stesso Paolo VI “senza essere una definizione dogmatica propriamente detta, e pur con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo, riprende sostanzialmente il Credo di Nicea, il Credo dell’immortale Tradizione della santa Chiesa di Dio”.
La professione di fede – che con quel riferimento esplicito al “popolo di Dio” già nel titolo non lasciava dubbi circa l’intenzione di ancorare la professione di fede all’ecclesiologia di comunione riscoperta e fatta propria dal Vaticano II – rispondeva all’esigenza fortemente sentita da Paolo VI di fornire una guida, una bussola, un punto fermo per quanti – in quegli anni burrascosi – correvano seriamente il rischio di perdersi dietro al “vento di nuove dottrine” (basti pensare che solo pochi mesi prima, nel 1966, era stato varato con l’appoggio dei vescovi locali il Catechismo olandese, a tutti gli effetti un tentativo di rilettura della tradizione cattolica in chiave neo-modernista; e non è certo un mistero che Paolo VI si convinse della necessità di una professione di fede anche come risposta cattolica a quel testo). Papa Montini, che di lì a poco (25 luglio) si troverà ad affrontare la tempesta scatenata dai detrattori dell’Humanae Vitae, aveva percepito chiaramente che quella Chiesa che era stato chiamato a governare stava vacillando sotto i colpi del progressismo teologico e degli entusiasmi suscitati da una interpretazione “liberal” del Vaticano II che nulla aveva a che fare con il vero Concilio, il tutto in un contesto sociale, culturale e politico a dir poco turbolento. Emblematico in tal senso il passaggo centrale dell’omelia pronunciata quel 30 giugno 1968: “Noi siamo coscienti dell’inquietudine che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità.
Senza dubbio la Chiesa ha costantemente il dovere di proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perchè ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e preplessità in molte anime fedeli”. Consapevolezza di una crisi drammatica, dunque, che Paolo VI espresse con parole se possibile ancora più dure e inequivocabili incontrando il 28 agosto di quell’anno i vescovi latino-americani (e forse non è un caso che proprio in america latina si svilupperà negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso uno dei fenomeni più devastanti del catto-progressismo in chiave marxista che va sotto il nome di teologia della liberazione): “siamo tentati di storicismo, di relativismo, di soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero della Chiesa e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico, un cristianesimo nuovo, su misura d’uomo, e non su misura dell’autentica parola di Dio”. Di qui, dunque, l’esigenza di una nuova versione del Simbolo, una nuova professione di fede, una nuova carta d’identità del cattolicesimo per ribadire che cosa vuol dire essere cattolico in epoca contemporanea.
Il gesto di Paolo VI fu indubbiamente coraggioso oltre che controcorrente; anzi, fu coraggioso perché controcorrente, in linea per altro con lo stile che gli era proprio, di cui di lì a breve darà prova ulteriore, ma in misura straordinariamente maggiore, con l’Humanae Vitae, enciclica che non ha mai smesso di essere (ingiustamente) contestata in ampi settori della chiesa, all’epoca apertamente poi in modo più strisciante, e che oggi – i segnali sono fin troppo chiari – sta subendo un nuovo, virulento attacco frontale da parte degli esponenti di quel riformismo sedicente cattolico che ha assunto le sembianze di un gattopardismo rovesciato, ossia non cambiare nulla per cambiare tutto. E qui basti ricordare il monito dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, che nell’autunno dell’anno scorso – dunque in tempi ancora non sospetti – sottolineava sul bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa dell’Osservatorio Internazionale card. Van Thuân, come “una messa in questione o una liquidazione dell’enciclica con la scusa di un suo «aggiornamento» avrebbe conseguenze negative per tutto l’ambito della Dottrina Sociale della Chiesa”.
Il motivo è chiaro: se viene meno una corretta visione della sessualità umana, è la società tutta intera che rischia di cadere in frantumi nella misura in cui l’egoismo, il “vivere per se stessi” – principio soggiacente ad ogni scelta contraccettiva – verrebbe elevato a norma di condotta (come in altri campi è puntualmente accaduto tutte le volte che abbiamo assistito all’imposizione a colpi di decreti legislativi di quelli che la neo-lingua politicamente corretta definisce “diritti civili”). Ciò che è l’esatto contrario del disegno di Dio sull’uomo, magistralmente riassunto da S. Paolo quando dice, in riferimento a Cristo, che “egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2 Cor 5, 15). Tornando al Credo del Popolo di Dio, sulla scia di una malintesa “apertura” nei confronti del mondo a sua volta figlia di una ben precisa quanto miope lettura del Vaticano II, tanto le spinte provenienti dall’esterno quanto, e soprattutto, quelle dall’interno della Chiesa stavano minando le fondamenta stesse del cattolicesimo. E’ esattamente in questo contesto che va inquadrata la scelta di Paolo VI. Il quale, fedelmente al mandato petrino – confermare nella fede i fratelli – a sorpresa promulgò quel testo ben sapendo le polemiche che avrebbe scatenato (e che puntualmente arrivarono).
Saranno gli storici a dire se e in che misura l’iniziativa di papa Montini sia stata efficace. Ciò che invece qui interessa rimarcare è l’importanza di quella scelta in sé, il fatto stesso cioè che Paolo VI ebbe il coraggio e la lungimiranza profetica di puntare tutto sul cavallo allora (come oggi) apparentemente meno vincente, quello della fede, in un momento storico in cui il mondo, la società e larghi settori della chiesa stavano andando in tutt’altra direzione, tutti protesi verso il sociale (con buona pace del fatto che Gesù di Nazareth in persona pose la domanda: “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà troverà ancora la fede sulla terra?”; non un mondo più giusto più equo e più solidale, l’umanità pacificata e finalmente emancipata dalla sofferenza e dal dolore, un eco-sistema ambientalmente sostenibile e salubre. Ma, appunto, la fede). Non era facile né scontato, come non è facile né scontato ribadire oggi certe verità “scomode”, sideralmente lontane dalla sensibilità dei più, quando non apertamente combattute. Eppure Paolo VI, che finalmente verrà presto elevato agli onori degli altari com’è giusto che sia, non si è sottratto adempiendo fino in fondo al suo mandato. Come un vero pastore che umilmente conduce il gregge non dove vuole lui nè tanto meno dove vuole il gregge, ma dove Dio gli dice di andare. E che sa diffondere attorno a sé il profumo di Cristo.
di Luca Del Pozzo