Aminu Ibrahim ha diciott’anni quando arriva in Italia. Viene dall’Inferno e spera nel futuro. Pochi mesi dopo dirà ad Antonello Licitra responsabile del centro di Comiso: Dio mi ha aiutato, tu mi hai aiutato. E decide di diventare cristiano, e di esser sepolto in Italia. Nel mezzo un male incurabile diagnosticato appena sbarcato. L’ultima foto, il giorno prima di morire, lo mostra sorridente accanto ad Antonello. I pochi mesi passati con gli amici del Centro, con Alberto Carelli, con l’assistente sociale Irene Corallo e l’azione strana di un Dio incarnato lo hanno reso cristiano e italiano e ora dorme sulla collina di Ibla. ‘Grazie’ la sua parola preferita.
Nei giorni scorsi, la meravigliosa località sicula ha visto la conclusione di un progetto della locale Fondazione San Giovanni legata alla Diocesi, impegnata sul fronte accoglienza. Il presidente Renato Meli (che guida anche la fondazione dedicata a Gesualdo Bufalino grande scrittore nativo di Comiso, poco lontano) ha raccolto l’idea di un concorso di racconti tra i migranti sparsi in tutta Italia entro i progetti Sprar – gli efficaci luoghi di protezione e d’inserimento dei richiedenti asilo – e pubblicare i migliori. Ne son arrivati più di cento e ne è uscito un volume con i tredici che ho avuto l’onere di scegliere e l’onore di prefare. Nella piazza di fronte al giardino comunale in una serata animata dalla musica dolce e speziata dei Radioderwish sono stati premiati i migliori. Arriva primo Momo, un ragazzo che ha scritto ‘L’eredità di Sabally’, dove si narra una favola di campo di manioca, cacciatori, invidie e facoceri. L’eredità di cui parla e che il padre lascia a Sabally è il perdono. E allora ho ricordato che il nostro poeta e santo Francesco nel suo Cantico di Frate Sole, origine della nostra lingua e visione poetica, quando elenca le qualità delle creature di Dio, al momento di indicare quella che distingue l’uomo da ogni altra creatura, nomina il perdono. L’eredità di Momo-Sabally approdato da poco come Ibrahim è la medesima di cui dal profondo della nostra civiltà ci parla il poeta e giullare di Dio, il più italiano dei santi.
Non è altrimenti concepibile la ‘integrazione’. E non servono vuoti slogan sulla ‘diversità’, esiste la drammatica pratica della ospitalità, sacra e a tempo, ed esiste la lunga fatica per costruire una, soda e fedele, cultura dell’incontro. Esiste lo scambio di racconti per scoprire il proprio volto e la guerra di interessi che lo deturpa se non è corretta dalla amicizia e governata dalla politica. Esiste la necessità di rispondere a un enorme fenomeno di natura umana, politica ed economica non con vaghi buonismi e rivoltanti cattivismi, ma con scelte umane, politiche ed economiche.
La storia viva di Ibrahim e quella raccontata con ‘L’eredità’ di Momo ci chiedono di essere seri e autentici. Di essere capaci di ospitare culturalmente e di accogliere civilmente e cristianamente, di rispondere con gli strumenti collettivi della politica e con l’azione personale della amicizia. Gli esempi di ‘santi’ come Aminu Ibrahim, la letteratura e l’arte sono vie buone per uscire da pregiudizi e guardare in faccia la realtà, per non prenderci in giro. Sono, come dice un poeta, le candele nell’oscurità di problemi difficili.
Davide Rondoni
Avvenire.it, 29 giugno 2018